Nella settimana successiva all' 1l settembre qualcuno in televisione chiese a un redattore del Village Voice come avesse percepito l'effetto che il disastro faceva sulla psiche della città e dei suoi abitanti. Lui la definì una « sospensione della distrazione ». Aveva notato che le persone si guardavano negli occhi come mai prima, che comunicavano anche silenziosamente con sguardi fuggevoli, imprimendosi bene in mente il viso dell'altro. Non sembravano assorbite nelle consuete preoccupazioni della vita, nei soliti stati mentali: l'evento inconcepibile, il suo orrore, l'enorme perdita di vite umane, la sparizione dei due edifici-simbolo della città avevano immerso gli abitanti di New York in una presenza senza parole di fronte all'enormità dell'accaduto.
« La sospensione della distrazione »: una frase molto espressiva.
La sua pregnanza colpiva a segno e suonava come un simbolo della resistenza umana, perfino della saggezza, in tempi di grandi ferite e lutti, che faceva ben sperare.
« La sospensione della distrazione» Stupefacente, per una città e una società nelle quali siamo trascinati a vivere una vita di distrazione praticamente perpetua, dove ogni cosa gareggia con ogni altra per ottenere la nostra attenzione, assaltandoci i sensi e la mente; una società in cui tanto spesso ci proteggiamo da quell'assalto furioso generando a nostra volta altra distrazione, e intanto dimentichiamo quel che più conta per noi, perfino chi siamo e che cosa stiamo facendo.
Non so per quanto tempo la cultura della distrazione, così praticata dai cittadini di New York, sia rimasta in sospeso; di certo un ritorno alla normalità deve far parte del processo di
guarigione.
Ma quel giorno diede la sveglia un po' a tutti, e per molte cose.
Di sicuro rivelò che una malattia fulminante, fino ad allora non riconosciuta, ignorata e non curata nonostante molti, seri segnali di attenzione, malattia forse anche fatta della nostra mancata comprensione dell'interconnessione, può trovare il modo di arrivare fino al cuore della nazione e scatenare gravissimi danni e indicibili sofferenze.
Ci ha ricordato anche, nel più eloquente dei modi, che ogni cosa è impermanente.
Sottolineo ogni cosa.
Certo, in fondo lo sapevamo già; ma nella vita di tutti i giorni fìngiamo con noi stessi di essere immortali, fingiamo che le nostre creazioni durino e che la vita scorra con una certa affidabilità e sicurezza e che le cose brutte succedano solo altrove, ad altri più sfortunati di noi.
Uno degli scopi dell'ordine sociale, in una società pacifica e sana, è assicurare ai suoi abitanti un alto grado di relativa certezza e sicurezza per mezzo delle leggi, sastenute da un'efficace applicazione delle leggi e da un sistema giudiziario imparziale, una difesa comune, un buon
sistema sanitario, dall'apertura di nuove possibilità con le opportunità di istruzione, di miglioramento economico, di espressione creativa. Almeno questo è l'ideale. In pratica questa è solo un'approssimazione che richiede continuamente di essere raffinata e approfondita. Eppure la legge dell'impermanenza è sempre in opera, comunque siano le nostre istituzioni al momento, buone ed efficaci oppure no.
Tutto cambia. Nulla rimane a lungo nello stesso modo.
Le cose sono sostanzialmente incerte.
In tempi di conflittualità sociale e di instabilità, gli effetti dell ' i m permanenza sembrano più evidenti, le cose ci appaiono più imprevedibili. Già questo, di per sé, può spaventare moltissimo. L'11 settembre ci ha mostrato che anche i grandi edifici sono impermanenti e che l'umana ignoranza e malevolenza può mandarli in fumo in un attimo. Ci ha ricordato che la nostra vita, anche se si è giovani, sani e si vive in tempo di pace, anche nel bel mezzo di una grande città in una grande nazione, e soggetta alle leggi dell'impermanenza.
Yeats ha osservato: «Ogni cosa cade, e poi viene ricostruita ».
Ma da noi non si era mai sperimentato finora che cose cosi grandi potessero sparire in un attimo: non ce l'abbiamo impresso nelle retine e nel cervello, con sequenze di Immagini che spezzano il cuore e che le parole non riescono a esprimere.
Quel giorno si è persa una certa innocenza, In parte dipende dal fatto che ci siamo risvegliati — risveglio in sè non male, ma crudelmente rivelatore — alla realtà che «la forma è vuoto».
Certo, anche Hiroshima e Nagasaki erano impresse nelle nostre retine, anche se non nel momento stesso in cui avvenivano gli attacchi e la distruzione, persino più rapidamente, in pratica in un istante, e su scala molto più vasta.
Ma la mente fa in fretta a dimenticare.
Era un'altra epoca, quella, prima dell'onnipresenza della televisione. E poi eravamo in guerra, e « loro» erano il nemico. « Loro» ci avevano attaccato senza preavviso.
Ma anche «loro», la gente di Hiroshima e Nagasaki, erano semplici civili che si stavano occupando degli affari propri, nelle due città; anche loro soffrirono perché i loro capi perseguivano le proprie personali idee di grandezza imperiale convinti di avere ragione (il che non si mette mai in discussione, quando si tratta della propria gente).
Certo, « loro» facevano parte del popolo che aveva scelto di aggredirci; ma quelle donne, quei bambini, quegli anziani e quei lavoratoti avevano ben poco a che fare con Pearl Harbor o con lo stupro di Nanchino, almeno quanto gli operatori di borsa del Cantor Fitzgerald avevano poco a che fare con le rivendicazioni di una parte del mondo islamico.
Forse è tempo di adottare la sospensione della distrazione come stile di vita.
Immaginiamo quanto potrebbe essere salutare, per noi personalmente e per tutto il mondo. Potremmo arrivare a conoscere davvero la pace perché saremmo pacifici.
Non ingenui, non deboli, non impotenti, ma realmente, potentemente pacifici: veri estimatori della pace, incarnazioni della pace nella vera forza, nella vera saggezza.
Impossibile?
E perché mai?
Tratto da 'Riprendere i Sensi' di Jon Kabat-Zinn ed. Corbaccio
Enrico Salvi scrive:
RispondiEliminaSembra inconfutabile come il rimedio alla distrazione, «dove ogni cosa gareggia con ogni altra per ottenere la nostra attenzione, assaltandoci i sensi e la mente», sia la catastrofe, dal greco katà, giù, sotto, e strèpho, volgo. La catastrofe è un capovolgimento, un rovescio. Sembra che per tornare a noi stessi, per ricordare «chi siamo e che cosa stiamo facendo», sia necessaria una catastrofe: una guerra, un terremoto, insomma qualcosa che abbia la forza di sconvolgere la nostra abitudine alla distrazione, la nostra pretesa di vivere “in santa pace” per poter fare il proprio comodo. Ora, a parte il giudizio di Gorge Bernard Show secondo il quale «i pacifisti sono i peggiori guerrafondai», c’è da chiedersi, prima che la distrazione abbia di nuovo il sopravvento, se c’è e qual è l’alternativa alla catastrofe, soprattutto riguardo alla guerra. Certamente si tratta di un problema grande come una montagna di cui non si vede la cima, posto che da che mondo e mondo le guerra c’è sempre stata, a riprova che l’uomo il bellum ce l’ha nel cuore, e che, beninteso, la guerra non è soltanto quella che si fa con le armi propriamente intese: basti pensare, per esempio, alla cinica lotta che si svolge dietro le quinte dello “spread”. E non aiutano – tutt’altro! - neanche certe sentenze come il ciceroniano “se vogliamo godere della pace bisogna fare la guerra”, o come quella di George Washington, padre del più democratico e più pacifico (?!) paese del mondo: “preparare la guerra è l’unico modo per mantenere la pace”, fermo restando che la “preparazione”, lungi dal “mantenere” la pace, prima o poi sfocia (deve sfociare) nella guerra. «Forse è tempo di adottare la sospensione della distrazione come stile di vita»: come non essere d’accordo? Però: come attuare ciò a livello, per così dire, internazionale? Il mondo così com’è organizzato, “questo mondo” direbbe Qualcuno, può permetterlo?
Caro Enrico,
RispondiEliminaio inizio da me è tutto quello che posso fare e ti assicuro che non è poco.