mercoledì 28 agosto 2019

Amore è saper essere soli.




Occorre capire una cosa molto intricata e complessa. Se non sei innamorato, ti senti isolato; se sei innamorato, se lo sei davvero, sei solo.
Sentirsi soli implica tristezza, essere soli significa non provare tristezza alcuna. Sentirsi soli è una sensazione di incompletezza: hai bisogno di qualcuno che non c’è. L’isolamento è oscurità, priva del minimo bagliore di luce; è una casa buia in cui si aspetta qualcuno che venga a ravvivarla con un po’ di luce.
La solitudine non è isolamento e ti dà un senso di completezza. Non hai bisogno di nessuno e basti a te stesso. È ciò che accade in amore! Gli amanti sono soli, perché attraverso l’amore entrano in contatto con la loro intima completezza. L’amore ti rende completo.

Coloro che si amano si condividono perché è in gioco la loro energia straripante, non perché questa sia un loro bisogno. Due persone che si sentono sole possono stipulare un patto e mettersi insieme. Non si amano, ricordalo, quindi restano sole; ebbene, grazie alla presenza dell’altro, non avvertono la solitudine, ecco tutto. In qualche modo ingannano se stesse: il loro amore, infatti, non è altro che un artificio per ingannare se stesse: «Non sono solo, c’è qualcun altro presente». E poiché sono due persone sole a incontrarsi, fondamentalmente la loro solitudine si moltiplica. Ed è ciò che avviene di solito.

Da solo ti senti isolato e quando hai un rapporto ti senti infelice: è un’osservazione che si può fare quotidianamente. Quando le persone sono sole si sentono isolate e, quindi, sono alla spasmodica ricerca di qualcuno con cui entrare in rapporto. Quando entrano in relazione con qualcuno, scatta l’infelicità e a quel punto pensano che sarebbe stato meglio stare sole; il che è un eccesso. Che cosa succede in questo caso? Due persone sole si incontrano, vale a dire due persone malinconiche, tristi e infelici si incontrano. L’infelicità si moltiplica: come possono due bruttezze diventare bellezza? Come possono due persone che si sentono sole mettersi insieme e diventare completezza, totalità? Non è possibile. Si sfruttano reciprocamente, cercando in qualche modo di ingannarsi a vicenda, ma quell’inganno non arriva lontano. Nel momento in cui la luna di miele è finita, è finito anche il matrimonio. Si tratta di una cosa provvisoria, si tratta solo di un’illusione.
L’amore vero non è una ricerca per cauterizzare l’isolamento. Il vero amore è trasformare l’isolamento in solitudine, aiutare l’altro, se lo ami, a essere solo. Tu non ne sei il completamento; non cerchi, in un modo o nell’altro, di completare l’amato con la tua presenza. Niente affatto: lo aiuti a essere solo, a essere così pieno del proprio essere da non trasformare te in un bisogno.

Quando una persona è totalmente libera, grazie a quella libertà è possibile una condivisione. In quel caso, questa persona può dare molto, senza che ciò sia un bisogno, senza che ci sia un baratto; dà molto perché ha molto, dà per la gioia di dare. Coloro che si amano sono soli e chi ti ama veramente non distruggerà mai la tua solitudine, ma la rispetterà completamente perché è sacra, non interferirà con essa, non devasterà quello spazio.
Di solito, però, chi si vuole bene, il cosiddetto bene, ha molta paura dell’altro e della solitudine dell’altro, dell’indipendenza dell’altro; ne ha molta paura perché ritiene che, se l’altro è indipendente, non avrà più bisogno di lui e quindi lo metterà da parte. Pertanto la moglie farà in modo che il marito rimanga in uno stato di dipendenza, di perenne bisogno, perché lei sia sempre importante. E il marito cercherà in ogni modo di fare sì che la moglie abbia sempre bisogno di lui per poter essere importante. Questo è un baratto e c’è sempre conflitto, battaglia. La lotta è semplicemente dovuta al fatto che ognuno ha bisogno della propria libertà.

L’amore lascia posto alla libertà; non solo le lascia posto, la rafforza. Qualunque cosa distrugga la libertà non è amore. Deve trattarsi di altro, perché amore e libertà vanno a braccetto, sono due ali dello stesso gabbiano. Ogni volta che vedi il tuo amore in conflitto con la tua libertà, significa che stai facendo qualcos’altro in nome dell’amore. Fa’ in modo che questo sia il tuo criterio: la libertà è il criterio; l’amore ti dà libertà, ti rende libero, ti affranca e quando sarai completamente te stesso, proverai gratitudine per la persona che ti ha aiutato. Quella gratitudine ha qualcosa di religioso, senti nell’altra persona qualcosa di divino. Lui, o lei, ti hanno reso libero e l’amore non si è trasformato in possessività. Quando l’amore si deteriora, diventa possessività, gelosia, lotta per il potere, politica, dominio, manipolazione e migliaia di altre cose, tutte orribili. Quando l’amore si libra alto nel più puro dei cieli è libertà, libertà totale; allora è moksha, libertà assoluta.

Osho
Tratto da ‘Con te o senza di te’ ed.Mondadori

domenica 25 agosto 2019

Il silenzio di Okinawa

Sensei Diego Pucci, reduce dal viaggio ad Okinawa in occasione del World Gishiki e delle celebrazioni per il 40ennale della Iogkf, ci invia queste riflessioni intorno al "silenzio".

Nell’esecuzione di un brano musicale, le pause hanno la stessa importanza dei suoni.
Il silenzio è tanto importante quanto lo sono i suoni stessi (chiamatele pure note) e, come questi, il silenzio va “sentito”, interpretato, modellato e cesellato al fine di renderlo parte integrante del brano, che non esisterebbe senza.
Ripeto ai miei allievi di pianoforte che quello della Musica è l’unico mondo dove esiste il silenzio assoluto.
Poi nella quotidianità ci troviamo in mezzo al fuoco incrociato del rumore, anzi, del frastuono.
Rumore che nasce anche d’aggrovigliate accozzaglie di suoni: i clacson nel traffico, gli slogan pubblicitari, la vuota musica di sottofondo pure mentre vai a comprare la carta igienica, le “polifoniche” suonerie ecc. ecc.
Rumore che nasce dal disordine, dall’ansia da prestazione lavorativa, dalle crisi personali, da banali litigi tra maschi alfa, dalla corsa, dalle urla per non saper aspettare in fila alla cassa del supermercato. dalla costante proiezione al di fuori di sé. Dalla frenesia.
Fisica o mentale che sia.
Insomma come in un grande flipper che urla e ride fragorosamente attraverso luci, suoni e ostacoli evanescenti fatti di movimenti meccanici, lenti e spigolosi.
Peccato tu sia la pallina e non il giocatore.
Eppure, una volta arrivati sul letto di casa, diventa impossibile sostenere il rumore di quella sola goccia d’acqua che, ad intermittenza quasi regolare, cade dal rubinetto.
Il silenzio assoluto non esiste e anche se provate a crearvi intorno silenzio, dovrete comunque ascoltare il suono del vostro respiro, quello del vostro cuore e quello della vostra circolazione sanguigna.
Per rendersi conto d’essere vivi, basta ascoltare. e per ascoltare, basta stare in silenzio.
In un vivo e presente silenzio.
Il vivo silenzio di Okinawa lascia increduli.
4 turisti italiani al tavolino di un ristorante fanno più rumore di tutti gli okinawensi a Kokusai Dori (parlo per esperienza diretta in entrambe le situazioni)
Eppure anche lì c’è musica, eppure c’è vita, eppure c’è traffico, eppure ci sono turisti, ma.. c’è il rispetto del necessario e vitale silenzio da lasciare passando attraverso la vita degli altri.
Fosse anche per un istante.
Nel silenzio vivo di Okinawa ognuno si scambia vita, si scambia rispetto anche solo mentre ti invita ad entrare nella sua bottega, o quando ti rende il resto, o quando ti ringrazia perché l’hai lasciato entrare prima di te attraverso la porta della Monorail.
Nel silenzio di Okinawa ci si scambia un piccolo inchino anche se si è sconosciuti.
Non solo perché ci siamo scambiati uno sguardo, ma perché ci siamo ri-conosciuti attraverso uno sguardo.
Viene rispettata l’esistenza dell’altra persona, senza il maniacale bisogno di sentirsene parte.
Riconosco la tua vita, riconosco il tuo essere vivo e lo rispetto.
Il silenzio di Okinawa mi manca.
Il silenzio di Okinawa è sublime, magnetica, vitale, rispettosa e viva bellezza.
Il silenzio di Okinawa è il silenzio di un Notturno di Chopin: non puoi solo contarne il tempo, devi viverlo, lasciarlo scorrere dentro e, infine respirarlo.
Quella espirazione dovrà chiudere la frase musicale precedente, così l’inspirazione che ne segue permetterà alla nuova frase di prendere vita.
Come nel Sanchin e come in tutta la pratica del Goju- Ryu di Okinawa.
La condizione necessaria per permettere alla bellezza di esistere nella nostra vita è il silenzio.
Così, per giungere alla consapevolezza che respiri, che pulsi e che ogni tua azione puo’ creare frastuono o suono, devi concederti di rimanere il silenzio.
Questo Okinawa lo sa.


© Tora Kan Dōjō



sabato 17 agosto 2019

Interviste con Sensei Bakkies (seconda parte)




Questa intervista è stata pubblicata sulla rivista australiana Blitz (Vol. 24 numero 5, Maggio 2010).

PORTANDO IL KARATE NEL MONDO

Bakkies Laubscher, Maestro di Karate Gōjū Ryū

Promosso a 8° Dan nel 2004 dal grande maestro di Gōjū Ryū, Morio Higaonna, Laubscher Sensei è uno dei maestri più noti della International Okinawan Goju-Ryu Karate-Do Federation (IOGKF) e anche il suo direttore tecnico. Il sudafricano gira per il mondo tenendo seminari e arriverà a Canberra questo mese. Prima del suo arrivo in Australia, Mike Clarke ha intervistato Laubscher per scoprire che cos’è che stimola questo uomo di karate a continuare ad allenarsi così duramente, giorno dopo giorno, e a dedicare la sua vita a promuovere l’arte del Gōjū Ryū.

Mike Clarke

Conobbi Bakkies Laubscher Sensei per la prima volta nell’ottobre del 1989. Ero in California per allenarmi al dōjō di Sensei Higaonna a San Marco prima del primo IOGKF Miyagi Chōjun Festival a San Diego. Anche Laubscher Sensei era arrivato in anticipo, e durante la settimana prima del Festival ha tenuto una classe ogni mattina al dōjō di Sensei Higaonna. La cosa che mi ricordo di più delle sue lezioni è quanto era in forma – e la sua velocità. Era anche grande – veramente grande! Le sue lezioni seguivano lo stesso formato ogni mattina: tanto junbi undo, hojo undo e lavori in coppia, con pochissimi esercizi fatti a vuoto. Ho notato che con il passare della settimana veniva sempre meno gente al dōjō, e dopo ero contento di aver accettato la sfida posta ogni giorno da Sensei Laubscher, insieme all’altro Sensei che conduceva la sessione nel pomeriggio. Visto che a dirigere la sessione serale era sempre Sensei Higaonna, non si arrivava alla fine della giornata con il pensiero di potere rallentare, anzi tutto il contrario!

Nato nel 1948 nel Free State (Sud Africa), da bambino si trasferisce con la sua famiglia alla provincia del Capo, in una zona di viticultura di nome Stellenbosch. Si laurea in educazione fisica e ottiene un Higher Diploma da insegnante, insegna per 6 anni prima di iscriversi nella South African Defence Force da ufficiale responsabile per allenamenti fisici e sportivi , dove otterrà il grado di Tenente Colonnello. Da quando è andato in pensione dalla Defence Force passa la maggior parte del suo tempo a viaggiare, ad allenarsi, a insegnare.

Laubscher si interesse già da bambino al karate, iscrivendosi a lezione di Kyokushin nel 1964. Un anno dopo il suo club decide di adottare il karate Shotokan sotto gli auspici della Japan Karate Association (JKA). Nello stesso anno viene promosso a shodan dai Sensei Kase e Shirai, e vince, a 16 anni, il titolo di Cape Province Grand Champion sia nel Kata che nel Kumite. Il fatto che non si ponessero limiti di età o di peso fa capire la straordinaria bravura e la determinazione del giovane Laubscher.

Sensei Bakkies Laubscher, Sensei Morio Higaonna

Nel 1966, James Rousseau introduce il Gōjū Ryū in Sud Africa e SenseiLaubscher passa dallo Shotokan al Gōjū Ryū. Sensei Morio Higaonna passa tre mesi in Sud Africa nel 1972 e questo rappresenta una svolta nella vita di Sensei Laubscher. Nel 1973 si trova a Tokyo ad allenarsi con SenseiHigaonna per 5 mesi allo Yōyōgi dōjō. Da quel momento in poi torna spesso in Giappone e a Okinawa.
Sebbene Sensei Laubscher sia molto noto nella IOGKF, è poco conosciuto all’esterno di questa organizzazione. Speriamo che questa intervista possa cambiare tutto questo.

Laubscher Sensei, come tanti sud africani sei molto alto e hai una struttura fisica imponente. Secondo te, questo ti ha aiutato o impedito nell’esercitare il karate?

Esiste un vecchio detto che dice ” Più grandi sono, più grande è il tonfo che fanno quando cadono” ma ce n’è anche un altro che dice , “Più grandi sono, più forti sono i loro colpi!”

Innanzitutto, devo dire che non ho questa forza dalla nascita. Se guardi le foto di me di quando ho ricevuto il mio shodan [primo dan], ero appena 75 chili, sottile e fragile. Ho iniziato il karate quando andavo ancora a scuola in una classe di universitari (ho mentito sulla mia età!), così venivo sempre colpito da persone più grandi e più forti e capii che avevo bisogno di allenarmi il doppio e diventare molto più forte se volevo fare qualche progresso. Ma poi, quando sono diventato più forte, non ottenevo alcun vantaggio perché anche loro si facevano più forti!

Così riflettevo su quale sarebbe dovuta essere la prossima dimensione [del mio karate]. Mi ricordavo del periodo in cui facevo pugilato, che i pesi leggeri/piuma potevano affrontare facilmente sia i pesi medi che i massimi e non farsi troppo male, perché sapevano muoversi molto velocemente così da evitare i colpi. E’ ovvio però che non erano in grado di fare male ai tipi grossi. Così pensavo che se uno riuscisse a essere forte come i pesi massimi e sapesse muoversi come quelli leggeri/piuma, sarebbe ideale. A quell’epoca stavo anche studiando educazione fisica all’università, il che allargò i miei orizzonti riguardo al mio approccio scientifico all’allenamento di karate.

Sono stato molto fortunato nel mio percorso di karate perché ho avuto solo istruttori o mentori di ottima qualità durante gli anni formativi. Per lo Shotokan, abbiamo avuto il defunto Sensei Kase e Sensei Shirai a Città del Capo per sei mesi. Mi allenavo con loro almeno tre volte a settimana e ogni fine settimana. Le caratteristiche predominanti di entrambi erano la potenza e la velocità – anche se regolari/lineari, erano entrambi estremamente veloci. La prima volta che mi sono allenato con SenseiHigaonna nel 1972, mi sono detto, grande o no, anche io mi voglio muovere così veloce come lui!

Ma anche dopo essere riuscito a ottenere velocità e forza, venivo battuto giù lo stesso e, dopo molta contemplazione, compresi, in una prospettiva di arte marziale più ampia, che all’inizio hai bisogno di velocità e forza, ma poi hai bisogno di qualcos’altro che parta dall’intelligenza per formulare e adattare strategie. Inoltre, una cosa che dico sempre ai miei studenti durante i seminari è che non si è mai troppo veloci o troppo forti, e che di sicuro esiste da qualche parte qualcuno che è più grosso e più forte di te! Lavoro ancora quotidianamente per migliorare la mia forza e la mia velocità.

Esistono numerose scuole di Gōjū Ryū ormai, persino a Okinawa. Ci racconti un po’ dei principi che usi nel tuo karate?

È una domanda molto interessante. Il mio approccio è quello di un karate tradizionale o classico; in altre parole, insegnare alla gente quello che gli serve (e non quello che vogliono sapere) per sopravvivere in un ambiente civile ostile, in linea con l’intenzione originale dell’arte. Sono molto preoccupato per la “teorizzazione” del karate e del Gōjū Ryū. Mi ricordo che durante la mia prima visita a Okinawa nel 1973 c’erano molti karateka che erano in grado di eseguire Sanchin di grande forza e avevano enormi calli sulle mani, ma non erano bravi nel confrontarsi con l’altro! Ultimamente, ho notato l’impiego di movimenti sofisticati stile jujitsu e teorie di digito-pressione tra i nuovi studenti, invece che un solido allenamento standard. Per me è una cosa preoccupante – si faranno ammazzare!

Il Gōjū Ryū tradizionale prevede che prima si renda il corpo forte e veloce, dopo si possono comprendere gli altri aspetti “marziali” di strategia, go e ju, e altre applicazioni più complesse. Il mio motto è “non complicare le cose”, che implica un allenamento standard. L’allenamento standard e una buona condizione fisica non sono cose che si possono tralasciare – è questa l’essenza del Gōjū Ryū.

Sensei Molyneaux, Flatt, Laubscher, Larsen, Terauchi

Al di là dei calci e i pugni, c’è anche una parte filosofica del karate che tu segui e insegni?

Non insegno di per sé una specifica filosofia, ma essenzialmente il motivo personale per cui seguo il karate-dō, invece di praticare qualche disciplina pugilistica, è l’aspetto del budō. Il dōjō kun (precetti del dōjō) e l’etichetta rappresentano la fondazione, e questa è la filosofia che trasmetto ai miei studenti. Non è facile – viviamo in una società moderna dove tutto è accessibile all’istante e gli studenti pretendono che anche il karate sia così. Vogliono vedere subito dei risultati, invece di considerare il karate come un percorso infinito per sfidare le debolezze e imperfezioni del proprio carattere attraverso l’allenamento.

Se dovessi elencare in ordine di priorità gli aspetti più importanti del karate, cosa diresti?

1. Junbi undo – il regime tradizionale di preparazione che consiste di tre fasi formulato da Miyagi Chōjun Sensei. Se non ce la fai a fare dieci flessioni, lascia perdere!

2. Hojo undo e Heishugata (i kata Sanchin/Tensho). Mi sembra strano vedere un dōjō di Gōjū Ryū che non dispone di chi’shi (martelli di pietra) e altri attrezzi di hojo undo. Allenarsi con i chi’shi è assolutamente fondamentale per il Gōjū Ryū. Serve a rinforzare le articolazioni, a differenza dell’allenamento che si fa in palestra che rinforza solo i muscoli e le articolazioni in una direzione, come con la panca.

3. Kihon. Io sostengo sempre che un nuotatore nuota, un ciclista pedala, e quindi un karateka dovrebbe fare karate – calciare, dare pugni, bloccare, muoversi: le combinazioni! Bisogna stabilire riflessi motori nella ‘memoria del corpo’ in modo che un’azione venga istintivamente, come quando si blocca un attacco inaspettato.

4. Kata e bunkai. Le numerose ripetizioni di kihon e kata aiutano ad ottenere quello stato di ‘assenza di mente’ (mushin)che è così importante in qualsiasi regime di combattimento. Una considerazione per quanto riguarda i kata bunkai: dovrebbero essere praticabili ed efficaci in una situazione reale. Non bisogna fidarsi di movimenti ‘belli’ e ‘interessanti’ ma praticare il bunkai in modo che funzioni veramente.

5. Kumite o sparring. Tutte le forme di sparring sono essenziali, ma il 90% dell’allenamento dovrebbe trattarsi delle routine prestabilite, come il sandan-gi, sanbon ippon, ippon kumite, nihon kumite (attacchi a due tecniche) e sanbon kumite (attacchi a tre tecniche). Allenarsi con le armi (per difendersi da un bastone per esempio) è importante – se non ci si allena specificamente per difendersi da questi elementi, non è che succederà automaticamente! Un avvertimento: non si migliorano la potenza e la velocità facendo solo sparring libero – le altre forme che ho menzionato servono apposta per migliorare la potenza e la velocità nello sparring libero.

Ci racconti i tuoi pensieri per quanto riguarda il kata bunkai?

Ho già accennato il mio modo di pensare nella ultima risposta­ – il bunkai dovrebbe essere praticabile e legato al movimento del kata. A volte abbiamo un movimento di kata come un chudan yoko uke nel kata, ma un tsuki uke nel bunkai – allora a cosa serve il yoko uke nel kata? Ma io sono così, ho un approccio molto logico. Se qualcosa ha un senso, l’accetto, ma se non ha una funzione ben chiara, non mi interessa affatto.

Le mie regole e condizioni per il bunkai sono:

1. Il bunkai dovrebbe essere applicabile praticamente. Ad esempio, la leva al braccio seguita da un atterramento nel kata Shisochin dovrebbe essere applicabile per rispondere ad un pugno da pugile, visto che il cattivo della strada non darà mica un pugno dritto da karate!

2.Dovrebbe essere svolto a piena velocità e con la massima potenza, altrimenti lascia perdere.

Quello che sto cercando di dire è che è inutile imparare il bunkai in un modo memorizzato, regimentato e coreografato – bisogna essere in grado di utilizzarlo in un scenario libero di tipo ippon kumite.

Un’altra cosa (forse un pò severa) sul bunkai: dipende dalla persona e da caso a caso. Non ci sono segreti che si riveleranno soltanto quando ti trovi sul letto di morte. Con l’aumento della tua conoscenza e dello zanshin(consapevolezza) e l’aprirsi della tua mente (che succederà solo se rimani uno studente invece di credere di sapere tutto) comincerai a capire il potenziale di ogni movimento.

È importante per te il jiyu kumite (combattimento libero)?

Jiyu kumite è molto importante. Ho già menzionato che è possibile avere la capacità di effettuare un Sanchin molto forte, conoscere a memoria tutti i kata e i bunkai, senza essere in grado di applicare nulla di ciò in uno scenario di sparring. Da questo punto di vista il jiyu kumite rappresenta uno strumento utilissimo per sviluppare le capacità di muoversi, attaccare e difendere e di far agire il proprio corpo non a seconda di quello che ordina il cervello ma grazie alla ‘memoria dei muscoli’. Non c’è tempo per pensare. Il corpo deve reagire! Questo è il budō.

Un avvertimento: come dicevo prima, solo il 10% dello sparring dovrebbe essere il jiyu kumite. La mia esperienza mi ha insegnato che diventa una situazione di ‘gioco’ se praticato troppo, e si perde dal punto di vista dalla tecnica, della velocità e della potenza. Per usare un esempio dal rugby, le squadre di rugby sudafricane a 15 non praticano il touch rugby nel riscaldamento proprio perché porta cattive abitudini. La stessa cosa succede quando si pratica troppo il jiyu kumite.

Che ruolo ha l’hojo undo nel tuo karate, e come leghi i vari attrezzi alle tecniche di karate?

L’hojo undo rappresenta uno dei pilastri su cui è costruito il karate Gōjū Ryū– pilastro debole, edificio debole! Non si puo fare Gōjū Ryū senza hojo undo. Quello che mi preoccupa è che non si vedono mai questi attrezzi durante i grandi seminari, dove si insegna l’essenza del sistema. Tenendo in conto che tanti dōjō sono utilizzati anche per altre attività, gli attrezzi di hojo undo più essenziali sono:

- Chi’shi. Ognuno dovrebbe averne uno personale, da portare al dōjō quando fa la lezione.

- Un sacco per il karate, oppure degli scudi che tengono i compagni e che possono essere trasportati dall’insegnante. Il sacco sospeso a delle catene offre di più, visto che lo si può usare come bersaglio in movimento. Non si può pretendere di dare un pugno nell’aria e pensare di sviluppare kime e la forza di atterrare qualcuno.

Gli altri attrezzi non sono indispensabili e possono essere sostituiti da attrezzatura da palestra. Un kongoken, ad esempio, costa molto e può essere sostituito da una stazione di forza. Gli ishi sashi possono essere sostituiti da manubri, ecc.

Sei già venuto in Australia diverse volte, come ti trovi qui?

L’adoro. Gli Australiani ci insegnano come si deve vivere: lavorare duramente, non procrastinare o perdersi nelle ‘piccole cose’, godersi in pieno la vita. Ed è un paese tosto dal punto di vista climatico, simile al Sud Africa: questo produce gente tosta – ottimo per il Gōjū Ryū!

Quanto viaggi in questo periodo per insegnare il karate, e ti piace girare per il mondo così?

Ho insegnato in ben 26 paesi, e questo lo considero una grande fortuna. Ci sono Presidenti e Capi di grandi paesi che non hanno viaggiato quanto me! Mi ha permesso di entrare in contatto con la gente comune di paesi che di solito non vengono visitati dai turisti, e questo ha allargato il mio punto di vista sulla vita e mi ha insegnato moltissimo. Condividere le preoccupazioni e le gioie della gente comune è un’opportunità per migliorarsi. Se non mi divertissi, non lo farei! Il divertimento o la soddisfazione viene quando vedi le facce delle persone che stai cercando di aiutare. Più si apprezza il mio lavoro, più mi viene la voglia di condividere quello che ho da offrire. Devo ammettere che scelgo con attenzione le mie destinazioni ormai – vado dove sono apprezzato.

È possibile trasmettere l’essenza del tuo karate a gruppi numerosi, o credi che i seminari servano a qualche altro scopo, o offrano qualche altro beneficio a quelli che ci vengono?

I grandi seminari sono essenziali perché danno la sensazione allo studente di appartenere a qualcosa di molto grande, e se è grande, deve essere buono! Ovviamente, è scontato che il migliore insegnamento è individuale o one-on-one, ma dal punto di vista dell’organizzazione un grande seminario dà la possibilità di incontrarsi ed esiste sempre l’opportunità di dividersi in gruppi più piccoli.



In questo momento (maggio 2010) stai lavorando su un evento IOGKF che radunerà molti praticanti, ci puoi anticipare qualcosa?

Ospiteremo in Sud Africa tre eventi in uno:

1. Il gasshuku IOGKF per i Capi Istruttori, aperto anche ai 5. dan in su;
2. Un gasshuku ‘Ubuntu’ aperto a tutti;
3. Una competizione IOGKF basata sul nostro particolare regolamento, dove i due partecipanti prima combattono per un minuto e poi eseguono un kata.

Il tema ‘Ubuntu’ deriva da un concetto africano sulle interazioni personali: una persona è una persona, per le sue relazioni/interazioni con le altre persone. Penso che vista l’epoca in cui viviamo, “schiavizzati” tecnologicamente dai nostri PC, Blackberry, iPod, TV, ecc, questa sia una opportunità per incontrarsi (di persona).

Se potessi in un solo attimo avere la tua vita e il tuo karate esattamente come li vuoi tu come sarebbero?

Non credo che cambierei niente – forse avrei voluto essere più aperto mentalmente da giovane. Sicuramente pochi sanno che la TV è arrivata in Sud Africa solo nel 1976, e io avevo già 26 anni, quindi fino allora l’enfasi era sempre stata più sulle attività fisiche, come lo sport. Non c’erano ovviamente tutte le informazioni che oggi si possono trovare facilmente e gratis su internet. Si possono letteralmente raggiungere centinaia di anni di esperienze di karate con un semplice click del mouse: il problema però rimane che il corpo non ha un pulsante sinistro e pulsante destro. Bisogna sempre fare l’intero ciclo di Gōjū Ryū.

Ho la netta impressione che la soddisfazione di aver finalmente capito qualcosa dopo 10 anni di duro allenamento sia molto più grande rispetto a quella che si riesce a ottenere cliccando su Youtube.



© 2018, Roberto Ugolini







giovedì 15 agosto 2019

忍耐 Della pazienza e del contagio


Pubblichiamo un estratto dall'articolo tratto dall'interessantissimo blog di Laura Imai Messina: 'Giappone Mon Amour' che vi invitiamo caldamente a seguire e che ringraziamo.

Questo il link diretto all'articolo:
Giappone Mon Amour

 

Ciò che seminai nell’ira 
Crebbe in una notte
Rigogliosamente
Ma la pioggia lo distrusse.
Ciò che seminai con amore 
Germinò lentamente
Maturò tardi
Ma in benedetta abbondanza

(Peter Rosegger)

<...>Le cose di valore difficilmente si ottengono d’un tratto, per caso. Per me è stato il lavoro che sognavo che è arrivato dopo anni di studio intenso e di gavetta, l’amore che è giunto preceduto da una grande confusione, il romanzo che ha atteso a lungo nella cartella di un pc. E soprattutto è l’integrazione in questo paese complicato che, uno ad uno, ha realizzato i miei progetti.

Nintai 忍耐 è rimanere ritti anche se c’è chi spinge per farti cadere. È seminare ed attendere frutti spuntare dalla terra. È sopportare anche gli schiaffi, perché la vita ne comprende una quantità superiore alle aspettative di ciascuno. E più aumenta la popolazione più le persone a mirare ad uno stesso sogno aumentano, le possibilità sembrano svanire. Per accedere allo studio, ad un posto di lavoro, ad una pubblicazione, ad un amore, persino a un’amicizia ci vuole forse qualcosa più della fortuna.

In questo momento della mia vita è tutto pazienza ed è tutto costanza. La pazienza d’attendere non l’ho mai veramente avuta e per ingannare questo aspetto crudele del carattere macino progetti. Ed ho capito che funziona.<...>


<...>C’è insistenza nella gioia, l’ho sempre creduto fermamente. Per chi è stato fortunato e le cose belle sono arrivate insieme al loro desiderio forse non c’è bisogno di apprendere la fatica ma per chi, come me e come tanti altri, se le è dovute sudare una ad una, imparare a immaginare la fine di un percorso è fondamentale.
Questa mia non è una visione del Giappone, è una visione della vita. Per chi conosce la disperazione e la perseveranza che porta risultati, la profondità delle passioni e la difficoltà nel controllarle, forse allora ogni cosa sembra un dono e naturalmente si condivide solo ciò che si ama.<...>

domenica 11 agosto 2019

Interviste a Sensei Bakkies (prima parte)

Ho incontrato Sensei Bakkies Laubscher per la prima volta a Stoccolma nel 2000, nel corso del Gasshuku Europeo IOGKF. Era il primo assistente di Sensei Higaonna e fece parte della commissione d’esame che mi esaminò per il secondo dan: durante la pratica mi aveva colpito per la pacatezza dei modi e per la morbidezza dei movimenti, inusuali per una persona della sua stazza.

A luglio dell’anno scorso, Sensei Bakkies ha fatto parte della commissione d’esame che mi ha esaminato per il quinto dan, sono passati 17 anni in cui le nostre strade si sono incrociate più e più volte nei dōjō e nei tatami di tutto il mondo.

Praga, luglio 2017

E sono passati 15 anni dalla sua prima visita come insegnante in Italia, era maggio del 2003. Quella che segue è la trascrizione dell’intervista che ci concesse in quell’occasione.

Quando e perché ha iniziato la pratica del karate-do?

Ho iniziato a praticare nel 1964, mia madre possedeva una residenza per studenti universitari, io frequentavo le scuole superiori, ogni sera, alle nove, si beveva il tè tutti insieme e poi si praticava la boxe, così ho cominciato a boxare anch’io, ma loro erano più grandi me! Ad un certo punto cominciammo a praticare una cosa nuova, chiamata karate. Capisci, ero appena riuscito a “sopravvivere” boxando e adesso il karate!Cominciai ad andare al club dell’università, frequentavo le superiori, avevo 16 anni e il karate era una cosa nuova per il Sud Africa.

Che stile di karate praticava, se si poteva parlare di stile?

All’inizio si praticava lo stile kyokushinkai, imparando dalle riviste, dai libri e dai marinai giapponesi. Città del Capo era un porto molto importante e quindi si praticava quello che praticava il marinaio giapponese “di passaggio”, anche lo shito ryu e lo shotokan.
Quando e come ha iniziato a praticare il Gōjū Ryū di Okinawa?
Nel 1964 il mio insegnante cominciò a praticare e insegnare lo Shotokan JKA. L’anno successivo, nel 1965, quattro maestri della JKA, Enoeda, Kanawaza, Kase e Shirai vennero in Sud Africa, Sensei Shirai rimase a Città del Capo per circa sei mesi e mi allenai con lui fino ad ottenere la cintura nera, shodan dello Shotokan JKA.


Sensei Enoeda, Kanazawa, Kase, Shirai, 1965 
Nel 1966, terminata la scuola superiore, fui chiamato per l’anno di militare: proprio quell’anno, in Sud Africa, la JKA ebbe dei problemi. SenseiJames Rousseau decise di andare in Giappone alla ricerca di qualcosa di diverso dallo Shotokan. Credo, non sono sicuro, che fosse “sponsorizzato” da Donn Draeger. Sia come sia, andò a praticare allo Yōyōgi dōjō, con Sensei Morio Higaonna e Teruo Chinen, che gli faceva da assistente.
Senesei Higaonna, Sensei Chinen
Dal Giappone Sensei Rousseau scrisse al mio insegnante, Hugh St. John Thompson, dicendogli di raggiungerlo. Lui andò e praticò anche lui allo Yōyōgi dōjō. Quando tornò in Sud Africa, alla fine del 1966, avevo appena terminato il servizio militare e imparai il mio primo kata di Gōjū Ryū.
Allenamento al makiwara, 1968 
Quindi ha continuato a praticare con Sensei Thompson fino alla sua prima visita in Giappone?

Sono andato per la prima volta in Giappone nel 1973. Nel 1972 facevo parte della squadra nazionale sudafricana che partecipò ai Campionati Mondiali WUKO a Parigi. Ad osservare i campionati c’era anche Sensei Higaonna, che poi venne in Sud Africa per quattro o cinque mesi. Poi nel 1973 lo raggiunsi in Giappone, un viaggio in nave di 25 giorni!
Sensei Higaonna, Sensei Bakkies, 1972
Qual è stata la sua prima impressione di Sensei Higaonna?

Molto forte, veloce, una pratica con ore e ore di kihon e condizionamento del corpo. La sessione di pratica allo Yōyōgi dōjō durava due ore, due ore con Sensei Higaonna mi sembravano come sei ore di un “normale” allenamento. Alle otto di sera terminava l’ultima classe formale, proprio a quell’ora arrivavano i senior, usciti dal lavoro, e iniziava l’allenamento individuale, con Sensei Higaonna a disposizione per consigliare, spronare, risolvere dubbi.

Quando ho iniziato a praticare, nel 1964, nonostante mia madre possedesse la residenza universitaria, non avevamo soldi per pagare la mia frequenza al club universitario di karate, allora costava cinque ren. Beh, per pagarmi la frequenza pulivo le scarpe degli ospiti della residenza, e mi rimaneva anche qualche spicciolo in tasca.
Al giorno d’oggi sembra tutto più semplice, hai tutto per niente, e i giovani non sanno sacrificarsi.
Quali erano i senior di Sensei Higaonna in quel periodo?
Yozo Ito era il sempai, Tomiaki Tadano, Teruo Chinen era già negli Stati Uniti… Un altro senior era Tomonori Namiki, ora è un arbitro della WKF. Poi c’era Juichi Kokubo, allora era nidan uchi deshi, ora è in Perù. Si occupava del dōjō, era molto duro, un “samurai”, nel tempo si è “ingentilito”. Non gli piacevano molto gli occidentali, forse era passato relativamente poco tempo dalla fine della guerra.

C’erano parecchi occidentali in quel periodo e tutti, indipendentemente dal grado, dovevano provare il loro valore, occupandosi del dōjō, e con la pratica. Il rispetto bisognava guadagnarselo, non c’era diploma o certificato che valeva più dell’esempio. Forse si è perso un po’ di quello spirito, ma per me è rimasto sempre lo stesso.

Se vuoi giudicarmi, guardami e pratica con me il karate, non guardare ai diplomi appesi alla parete.

Ci può dire qualcosa dei suoi ricordi di Donn Draeger?

Terry O’Neill, il direttore della rivista Fighting Arts International, era in Giappone nello stesso periodo della mia prima visita. La JKA teneva una competizione e andavamo insieme a vederla, lui in realtà era nella squadra inglese. Poi ci allenavamo insieme allo Yōyōgi dōjō con Sensei Higaonna.

O’Neill, come direttore della rivista, non scriveva solo di karate, ma anche di tutte le altre arti marziali. Era stato anche ad Okinawa dove si era allenato allo Jundokan di Sensei Miyazato. Sensei Higaonna mi aveva aiutato a trovare una sistemazione, Terry, dopo la competizione JKA, rimase altre due settimane a Tokyo e si sistemò nella mia stanza.
Sensei O'Neill, Sensei Bakkies, 1973
Terry aveva collaborato parecchie volte con Draeger. Un giorno, allo Yōyōgi dōjō, al termine dell’allenamento, Terry mi presentò Draeger. Draeger aveva assistito all’allenamento insieme ad altri giapponesi e, con tono piacevole, mi disse che avevo smentito gli osservatori giapponesi che, vedendomi grande e grosso, pensavano fossi lento e scoordinato. Durante lo yakosoku kumite li avevo sorpresi con la mia velocità e tecnica che superavano quella di molti giapponesi!

Due o tre giorni dopo andammo nella zona di Tokyo dove abitava Draeger, vicino all’aeroporto di Narita, e da lì con lui andammo a trovare uno dei suoi insegnanti di budo, non mi ricordo il nome ma credo che in uno dei libri di Draeger ci sia una sua foto. Mentre parlava sembrava non si reggesse in piedi, ma appena messo piede nel dōjō, che cambiamento, un portamento, una fierezza, veloce, preciso, i piedi sembrava non toccassero mai terra, ma scivolavano. E’ la prima volta che ho pensato come vere quelle storie dell’anziano maestro che combatte con tanti avversari e vince.

Donn raccontava tante storie interessanti, era un 5° dan di Judo Kodokan e praticava anche il karate Shotokan, quando Kanawaza ed Enoeda erano ancora cinture bianche! Un giorno mi disse che con l’introduzione del karate nelle università giapponesi e quindi con lo spostamento dell’interesse verso le competizioni, il karate si stava allontanando dal concetto di budo che tanto faticosamente i padri fondatori avevano auspicato e raggiunto.


Ci parli dello Yōyōgi dōjō.
Oh, il pavimento era ruvido, con delle grosse tavole e dei chiodi sporgenti, prima dell’allenamento dovevano “martellarli”, se no rischiavamo di tagliarci i piedi. Le docce non erano delle vere docce, un tubo di gomma dietro una tenda, vi lascio immaginare la mia sorpresa dopo il primo allenamento, faceva molto caldo e non vedevo l’ora di fare la doccia!!


Quando è stata la sua prima visita ad Okinawa?

Nello stesso anno, nel 1973. Ci fu una cerimonia per commemorare il ventesimo anniversario della morte del maestro Miyagi. Alla cerimonia partecipò anche un gruppo di studenti dello Yōyōgi dōjō, guidati da Sensei Higaonna.


Io dimostrai delle tecniche per difesa da attacchi di coltello, insieme a un marine americano, che era stato in Vietnam e praticava Gōjū Ryū con Ken Ogawa in Florida. Ogawa era stato uchi deshi allo Yōyōgi dōjō prima di Kokubo.

(Sensei Spongia) Ho letto un articolo su Ken Ogawa, si parlava di lui come del possibile successore di Sensei Higaonna.

Ogawa era, a quanto pare, molto forte, mi hanno raccontato che nessuno voleva combattere con lui perché sembrava di combattere contro l’acciaio, a colpirlo ci si faceva male. E’ morto per un incidente…

Ci preparammo alla dimostrazione allenandoci allo Jundokan, mi ricordo Sensei Higaonna che praticava i kata, kururunfa, tensho, solo più tardi ho cominciato ad apprezzare quello che ho visto in quel periodo.

(Spongia) Com’era la pratica allo Jundokan?

Nello Jundokan non c’erano classi formali, con orari fissi voglio dire, ci si allenava per lo più da soli, con i sempai per chiedere consigli, molto sanchin, chishi, gli altri kata. Ognuno praticava i kata in maniera differente, mi ricordo una volta un gruppo di sei o sette rokudan praticare il kata seipai, ognuno in modo differente e poi, scherzosamente, discutere tra loro quale fosse il modo giusto.

Com’è la sua pratica oggigiorno, la stessa di come praticava in passato?

Attualmente pratico tutte le mattine, qualche volta anche la domenica; i lunedì, mercoledì e venerdì pratico il makiwara, il sacco, il chishi, il kongoken, sanchin, tensho, una volta più kata, altre volte mi concentro su un unico kata, cinque o quindici volte, dipendo da come mi sento. Gli altri giorni alleno la forza e la resistenza, andando in bicicletta, allenandomi con i pesi, andando avanti con la pratica dedico sempre più tempo allo stretching.

(Spongia) Si allena anche nel pomeriggio o la sera?

Beh, di solito ho tre sessioni al giorno, cerco di allenarmi con la sessione dei senior, l’ultima sessione della giornata. Ogni giovedì poi l’ultima sessione è dedicata alle cinture nere.

Insegna come si allena personalmente?

No, quasi mai. Cerco di insegnare quello che ritengo utile per gli allievi, molto allenamento di base…

(Spongia) Il rischio è quello di insegnare quello che chiedono gli allievi.

Sarebbe facile farli felici, ma non è detto che sia quello che gli serve.

Quali sono le qualità più importanti per un karateka?

Rimanere uno studente, quando pensi di sapere qualcosa è il momento che non sai niente. Essere aperto, pronto a cambiare idea, flessibile, auto disciplina, una qualità importante, equilibrio nella pratica, troppo karate non va bene, ma neanche troppo poco karate va bene. Un buon equilibrio nella pratica si trasforma in un buon equilibrio nella vita, così si migliora come persona e come karateka.

(Spongia) E le qualità più importanti per un insegnante?

Essere sempre aggiornato: vuoi stare al caldo? Devi stare vicino al fuoco! Questo significa praticare con il tuo maestro, praticare con gli altri studenti, partecipare ai gasshuku. Poi bisogna essere in grado di capire gli studenti, le cose cambiano, le persone cambiano, magari fargli capire perché devono fare determinati esercizi.

Sensei Bakkies, Sensei Miyagi, Sensei Higaonna, 1981 
Higaonna dōjō, 2004, seduti da destra, Sensei Bakkies, Sensei Miyagi, Sensei Higaonna; in piedi a destra, Sensei Spongia
(Spongia) Magari qualche volta e con qualche studente si può dire di fare una cosa senza troppe spiegazioni!

Eh, si, dipende dallo studente, non tutti sono uguali!

Qual è la sua opinione riguardo alla pratica del makiwara?

La pratica con il makiwara va bene, se il makiwara è un buon makiwara. Non serve per fare i calli sulle nocche, io mi alleno tre volta alla settimana con il makiwara, duecento ripetizioni per mano, e non ho i calli alla mano (n.d.a. le mani di Sensei Bakkies sono decisamente robuste!!). Le nocche ingrossate possono dare l’impressione di una mano molto robusta, ma la pratica del makiwara deve irrobustire “dentro”, tutto il corpo deve partecipare al colpo, mano, polso, avambraccio, gomito, ecc. E bisogna evitare lo “shock” del ritorno, Sensei Higaonna ci dice sempre di rimanere qualche istante a contatto dopo il colpo. E’ importante anche alternare il makiwara con il sacco pesante.

Cosa ne pensa della pratica dei bunkai?

E’ l’essenza del karate, la pratica corretta dei bunkai, che presuppone una pratica corretta del kata, può portare al miglioramento delle qualità necessarie nell’autodifesa.

Qual è la sua opinione sui gasshuku?

I gasshuku sono veramente molto importanti: spesso il vedere un altro praticare un esercizio o una tecnica, magari fatto mille volte, può dare lo spunto per migliorarne la comprensione. E poi l’atmosfera è molto importante, ci si allena per ore, poi si beve qualcosa insieme e si può parlare ancora per ore. Il Sud Africa è lontano e i gasshuku internazionali ci mancano!

Dopo circa quarant’anni di pratica del karate, avrà trovato un significato, ce lo vuole spiegare?

Penso che dopo aver praticato per quarant’anni, sarei stupido a terminare la mia pratica adesso! Devo ancora scoprire molto con la pratica del karate, sto ancora imparando molto, ogni volta che pratico. Inoltre mi tiene in salute, mi piace, provo soddisfazione nel praticare. Una gran motivazione la trovo anche nella pratica dei miei maestri, Sensei Higaonna, An’ichi Miyagi, li vedo praticare e sono motivato a mia volta.

Ha mai usato il karate nella vita reale?

Non ancora! In tanti mi hanno fatto questa domanda nel corso degli anni. Ma posso affermare che la pratica del karate ha influenzato molto nella mia vita. Quando sono passato da militare semi-professionista (part-time) a professionista (tempo pieno), ho dovuto fare l’addestramento di base di nuovo, con delle persone molto più giovani di me, sui diciotto anni, io ne avevo 35. Una parte dell’allenamento consisteva nel correre per qualche miglio e poi infilarsi in tubo molto lungo e percorrerlo strisciando fino all’altra estremità. Il tubo era così lungo che non si vedeva la luce dell’altra estremità, il gruppo era molto numeroso, una ventina di persone, la situazione non mi piaceva per nulla. Quando eravamo tutti dentro il tubo, ci siamo accorti che un altro gruppo di persone stava strisciando nella direzione opposta alla nostra! Eravamo costretti a superarci dentro il tubo! A un certo punto ho sentito una delle persone davanti a me urlare che qualcuno si era sentito male e respirava a fatica, si diffuse il panico! Ordinai alla persona dietro di me di dire, con un passaparola, di fermarsi, stessa cosa per quelli davanti a me. Poi dissi alla persona davanti a me di oltrepassare il soldato svenuto e poi afferrarlo per le braccia, mentre io lo spingevo da dietro, ci abbiamo messo ventiminuti per uscire, senza vedere niente, non vedevo neanche la persona che stavo spingendo. Fu un’esperienza terribile, e posso affermare che se non avessi mantenuto il controllo e la concentrazione, frutto della mia pratica del karate, forse non ne sarei uscito vivo.

(Spongia) Il mio maestro zen mi ha detto che si può allenare uno tzuki cento, mille volte, mantenendo la concentrazione e la tecnica corretta, e il risultato di questa pratica sarà che il gesto che ti salverà la vita potrebbe essere il gettare un caffè in faccia all’assalitore!

Una cosa che dico sempre ai miei studenti è che la maniera migliore di togliersi dai guai, è di evitarli!

(Spongia) Quando al dōjō mi chiedono di insegnarli l’autodifesa, e poi vedono che insisto con il karate non capiscono, ma la concentrazione, la fiducia, aumentano il “capire” la situazione di pericolo, ed evitarla. Questa è autodifesa!

Credo che il vero significato di “karate ni sente nashi”, non esiste il primo attacco nel karate, sia proprio “non metterti nelle condizioni di dover attaccare o essere attaccato”.

Qual è la sua opinione sul futuro del Gōjū Ryū di Okinawa?

Molto dipenderà dai successori dei maestri della presente generazione, se rimarranno fedeli agli insegnamenti ricevuti e alle tradizioni. Credo che ci siano delle ottime opportunità per la crescita, molti praticanti di karatesportivo sono disillusi, dopo la fase agonistica non trovano altre motivazioni. Inoltre mentre venti anni fa le persone nelloro tempo libero andavano in club, sport club, golf club, adesso le cose sono cambiate, fanno free climbing, snorkeling, cercano qualcosa di reale, e il karate, il karatetradizionale, è reale, aumenta la concentrazione e aiuta ad affrontare le varie situazioni della vita. C’è una gran richiesta per questo, e non morirà mai.


Sensei Bakkies, Sensei Higaonna, Sensei Nakamura, 2016 

Il futuro del karate è legato indissolubilmente ai maestri giapponesi?

Beh, il karate non è stato creato dai giapponesi! Loro e noi abbiamo due mani, due piedi, un cervello.

Un’ultima domanda, come l’apartheid ha influenzato la sua pratica del karate?

Ho cominciato a insegnare karate nel 1967, e fin da allora ho avuto allievi di colore. Non potevo avere classi “miste”, era contro la legge, e quindi il corso del venerdì era esclusivamente per le persone di colore. All’inizio la polizia veniva a vedere le lezioni e chiedeva cosa stesse succedendo, affermando che stavo insegnando ai neri come uccidere i poliziotti, ma la mia risposta è sempre stata che li tenevo lontani dalla strada, se erano nel dōjō non potevano essere nella strada. La polizia alla fine mi lasciò continuare. Oggi il mio studente più anziano è di colore, mentre sono qui in Italia lui conduce le lezioni al mio dōjō!

Quando era nella squadra nazionale sudafricana, nel 1972 a Parigi e nel 1975 a Los Angeles, siamo stati oggetto di minacce, ci dovette proteggere l’FBI, ci seguivano ovunque. Poi inizio il boicottaggio, e per noi fu difficile. Mi ricordo che nel 1981 la IOGKF organizzò un gasshuku e un torneo a Okinawa. Il team sudafricano era molto numeroso, ma le autorità non ci fecero partecipare al torneo, perché uno dei partecipanti, un neozelandese, protestò per la nostra presenza con la polizia. Ho ricevuto tantissimi inviti per insegnare in tante nazioni e spesso non ottenevo il visto. Nel 1990 in Nuova Zelanda, nel 1986 per un gasshuku a Suzuka non ho potuto portare neanche il gi, e sono dovuto entrare con un visto turistico! Sono stati tempi difficili, ma li abbiamo accettati e ora le cose sono cambiate.

La IOGKF è sempre stata aperta, fin dalla sua fondazione, nel 1979 a Poole, in Inghilterra. I rappresentanti sudafricani, guidati da James Rousseau (ora non insegna e vive facendo il chiropratico in Inghilterra) erano di colore in gran numero.

Grazie Sensei per la sua disponibilità, è stato veramente un piacere ascoltare i suoi ricordi, racconti ed esperienze.



© 2018, Roberto Ugolini

© Tora Kan Dōjō