"Il cambiamento imposto dal coronavirus sembra
una sofferenza difficile da sopportare, anche se l’umanità ha superato di molto
peggio. Succede perché ci troviamo nella condizione in cui tutta la nostra
modernità, la tutela tecnologica, la globalizzazione, il mercato, insomma tutto
ciò di cui andiamo vantandoci, ciò che in sintesi chiamiamo progresso, si trova
improvvisamente a che fare con la semplicità dell’esistenza umana.
Siamo di fronte all’inaspettato: pensavamo di
controllare tutto e invece non controlliamo nulla nell’istante in cui la
biologia esprime leggermente la sua rivolta. Dico leggermente, perché questo è
solo uno dei primi eventi biologici che denunceranno, da qui in avanti, gli
eccessi della nostra globalizzazione.
Se questo è il quadro, c’è forse un’incapacità di
evolverci, come esseri umani? Il Cristianesimo ha diffuso in Occidente un
ottimismo che ci ha insegnato a pensare in questi termini: il passato è male,
il presente è redenzione e il futuro è salvezza. Questa modalità di considerare
il tempo è stata acquisita dalla scienza, che a sua volta dice che il passato è
ignoranza, il presente è ricerca e il futuro è progresso.
Persino Karl Marx è un grande cristiano quando predica
che il passato è ingiustizia sociale, il presente farà esplodere le
contraddizioni del capitalismo e il futuro renderà giustizia sulla Terra. E
Sigmund Freud, che pure scrive un libro contro la religione, sostiene che i
traumi e le nevrosi si compongono nel passato, che il presente sia magico e che
il futuro sia guarigione. Non è così. Il futuro non è il tempo della salvezza,
non è attesa, non è speranza. Il futuro è un tempo come tutti gli altri. Non ci
sarà una provvidenza che ci viene incontro e risolve i problemi nella nostra
inerzia. Speriamo, auguriamoci, auspichiamo: sono tutti verbi della passività.
Stiamo fermi e il futuro provvederà: non è così.
Quindi cosa dobbiamo fare? Non c’è niente da fare, c’è
da subire. Accettiamo che siamo precari: ce lo siamo dimenticati? Rendiamoci
conto che non abbiamo più le parole per nominare la morte perché l’abbiamo
dimenticata. Ammettiamo che quando un nostro caro sta male lo affidiamo
all’esterno, a una struttura tecnica che si chiama ospedale, e da lì non
abbiamo più alcun contatto. Una volta i padri vedevano morire i figli quanto i
figli vedevano morire i padri. C’erano le guerre, le carestie, le pestilenze.
Esisteva, concreta, una relazione con la fine. Oggi l’abbiamo persa. Quando
qualcuno sta male, mancano le parole per confortarlo. Diciamo: vedrai che ce la
farai. Che sciocchezza. Che bugia. Perché abbiamo perso il contatto con il
dolore, con il negativo della vita. E quindi come facciamo ad avere delle
strategie quando il negativo diventa esplosivo?
Mi chiedete: il timore di cambiare è un limite
valicabile? Facciamo prima un punto sulla realtà.
Sono trent’anni che il Paese non è governato:
accorgerci ora che abbiamo cinquemila letti in terapia intensiva quando la
Germania ne ha 28 mila, scoprire che le carceri sono in subbuglio e che è
possibile scappare sui tetti, ammettere adesso che andavano costruite altre
strutture perché i detenuti potessero vivere in condizioni almeno vivibili; è
il conto che stiamo pagando per essere stati distratti, per non aver preteso
una guida vera. Per non parlare del debito pubblico: un macigno che si farà
ancora più pesante per sopperire alle difficoltà economiche di questi mesi.
È questo il limite, reale. E se lo troveranno davanti
soprattutto i giovani, che al momento sembrano non morire con la stessa
velocità e intensità dei vecchi: poi toccherà a loro, se non si ammalano,
continuare a esistere in questo mondo.
È un momento di sospensione, specie dalla frenesia
quotidiana. Mi dicono: per molti è un valore positivo, per altri un monito del
fato. Io penso che la sospensione ci trovi soprattutto impreparati: ci
lamentiamo tutti i giorni di dover uscire per andare a lavorare, ma se dobbiamo
fermarci non sappiamo più cosa fare. Non sappiamo più chi siamo. Avevamo
affidato la nostra identità al ruolo lavorativo. La sospensione dalla
funzionalità ci costringe con noi stessi: degli sconosciuti, se non abbiamo mai
fatto una riflessione sulla vita, sul senso di cosa andiamo cercando. Siccome
non lo facciamo, poi ci troviamo nel vuoto, nello spaesamento. E allora
chiediamoci: il paesaggio era il lavoro? L’identità era la funzione? Fuori da
quello scenario non sappiamo più chi siamo? Questo è un altro problema. Non
basta distrarsi nella vita, bisogna anche interiorizzare e guardare se stessi.
Finora siamo scappati lontano, come se noi fossimo il nostro peggior nemico. I
nostri week end non erano l’occasione per volgere lo sguardo a noi, ai nostri
figli. Erano fughe in autostrada.
Perché conosciamo due modalità dell’esistenza:
lavorare e distrarci. Fuori dal quel cerchio, è il nulla.
Un quarto della popolazione italiana è estremamente
fragile: il virus lo ha dimostrato. C’è chi si sorprende del relativismo della
società rispetto ai più deboli. Ma è inevitabile. So bene che se mi dovessi
ammalare io passerei in secondo piano, perché sono da salvare prima i giovani.
Il problema è perché siamo arrivati a dover affrontare questo tipo di scelta,
perché non abbiamo provveduto a creare le condizioni, e le strutture, per
fronteggiare il dilemma. Moriremo per inefficienza. Se un virus si propaga con
un numero di vittime paragonabile ai morti in guerra è chiaro che andrà
tracciata − netta − la linea tra chi deve vivere e chi morire.
Ora: l’egoismo non sta diventando adesso un valore
primario. È già il valore primario nella nostra cultura. La solidarietà è
andata a picco in questi anni. Individualismo, narcisismo, egoismo: sono tutte
figure di solitudine. La socializzazione si è ridotta alla propria parvenza
digitale. E se anche l’istruzione, superata questa fase sperimentale, costretta
dai tempi, dovesse poi venire diffusa via internet? I ragazzi hanno bisogno di
imparare ma anche di guardarsi in faccia, di ridere, di capire attraverso lo
sguardo se l’altro dice la verità o sta mentendo. Hanno bisogno di esperienze
fisiche.
Nell’isolamento e nelle avversità, gli esseri umani
hanno bisogno di sentire di non essere soli a lottare. I cinesi di Wuhan se lo
gridavano dalle finestre. Quindi se la rete digitale ha reso possibile la
connessione là dove non c’è possibilità di incontro, mi viene da pensare: bene,
ottimo, ha dimostrato la sua utilità. Ma per come ha funzionato fino a ora,
Internet ha anche isolato i nostri corpi. Un conto è dirsi le cose in rete, un
conto è dirsele di persona. Il problema, da qui in poi, è di continuare ad
avere una relazione sociale secondo natura, in cui un uomo incontra un uomo, e
non l’immagine di un uomo in uno schermo.
Quando potrà risollevarsi l’animo umano? E come?
Il degrado è stato significativo. Secondo me l’animo
umano era più all’altezza di queste situazioni all’epoca dei nostri nonni,
quando la fatica e la penuria e la povertà erano le condizioni della
solidarietà. Nelle società opulente abbiamo sviluppato invece l’egoismo, perché
ci era consentito, non avendo più bisogno del nostro prossimo.
Che l’umanità occidentale sia a perdere mi sembra
evidente: siamo costretti in casa con le nostre scorte alimentari e il nostro
letto caldo, l’unica pena che ci è inflitta è non poter uscire. Siamo il popolo
più debole della Terra, il più assistito dalla tecnologia: se manca la luce per
dodici ore andiamo nel panico. Mi spingo oltre: il razzismo di noi italiani, al
di là di come viene indotto, ha una ragione radicata nell’inconscio. Abbiamo
paura degli africani perché capiamo che quei signori capaci di attraversare i
deserti, sopravvivere alle carceri e attraversare il mare sono biologicamente
superiori a noi. Bios vuole dire vita. Ed è la biologia, accettiamolo, che
vincerà."
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