domenica 15 dicembre 2019

Distogliersi da sé stessi




Per indicare la completezza fondamentale che non manca di nulla, Touzi disse: «Nel momento stesso in cui hai deciso di venire, hai già meritato un colpo». Questa non è una prova dell'illuminazione. Non appena si cerca di scoprire che cos'è la mente, che cos'è Buddha, ci si è già distolti da se stessi per rivolgersi a un altro. Anche se siete in grado di dire da voi stessi che tutto è svelato e naturalmente chiaro, anche se parlate di mente, di natura, di Zen e della Via, niente di tutto ciò è libero da sforzo. Se c'è uno sforzo, ci sono nuvole per diecimila miglia: vi siete già allontanati molto da voi stessi". Daokai era entrato in monastero e un giorno andò a parlare con il maestro Touzi. A una domanda di Touzi, Daokai stava rispondendo, ma Touzi lo anticipò colpendolo con uno scacciamosche e dicendo la frase che è riportata in questo brano che abbiamo letto. Così Daokai si illuminò.
La prova dell'illuminazione è la cessazione della necessità di andare o venire, di chiedere o di ribattere. Cosa c'è dietro la ricerca? Una domanda. L'assenza della domanda è l'assenza della ricerca. E l'assenza della ricerca è l'assenza dell'ego. È fondamentale la comprensione di questo punto. Perché l'assenza della ricerca è anche assenza dell'ego? Il fatto è che l'ego è il principio del dualismo stesso: a causa dell'ego ci sono io e ciò che è altro da me. Allora c'è la frammentazione della realtà, la divisione, la mancanza, la frattura e quindi il bisogno di una ricomposizione. Inizia il processo della ricerca, del domandare, dell'accattonare ciò che riteniamo poterci condurre alla ricomposizione della nostra unità, di una originaria interezza. Quindi dall'ego alla ricerca. Ma perché se non ricerco più, non c'è più ego? Potremmo pensare, invece, - e di solito così si ritiene – che l'ego continui a sussistere. Tuttavia è bene indagare la questione con maggior cura. La cosa decisiva è che qui stiamo parlando di un abbandono del domandare, del ricercare, e non di uno sforzo atto a bloccare la domanda che è già dietro alte nostre labbra; non è un costringersi a non tradurre quelli che sono i nostri numerosi e opprimenti pensieri relativi alla ricerca stessa e alle loro possibili soluzioni.
C'è l'abbandono della ricerca e c'è la resistenza alla ricerca. Il primo va praticato, mentre la seconda è un incubo. Abbandono della ricerca è alleggerimento, è la conclusione rilassante del domandare. La resistenza invece è solamente repressione, ulteriore violenza, auto-castrazione. Gli esiti di questi due atteggiamenti saranno altrettanto distanti: con la resistenza si giungerà all'inasprimento della tensione e quindi all'accrescimento della necessità della ricerca, al rafforzamento dell'ego; con l'abbandono si verrà condotti a uno stato di pacatezza, di distensione, di posatezza. Soprattutto: mediante l'abbandono della ricerca vi sarà un processo silenzioso e spontaneo di ritorno a sé. È spontaneo: non è che prima vi sia questo abbandono e poi il ritorno a sé; no: l'abbandono è esso stesso ritorno a sé. Ed è questo processo la resa stessa dell'ego. Rilassatezza: questa è una parola oramai molto banale, strausata, abusata. Ma può farci intendere la differenza di cui qui stiamo parlando. E come quando usciamo all'aperto in un giorno di freddo: una cosa è il corpo che, in una condizione di dimenticanza e di reattività, si contrae; un'altra cosa è il corpo che, presente e libero, permane nella sua condizione di rilassatezza. Che non è resistenza. Nell'abbandono c'è questo rientrare, c'è questo rincasare. Non c'è più due, ma uno. Ed è un recuperarsi che è anche uno sfumare, un dissolversi. Quando non c'è più dualità, quando non c'è più differenza, quando c'è solo unità, completezza e non- mancanza, allora è evidente che questa compiutezza sia silenzio, vuoto, assenza, non essere. È un fiducioso perdersi, un rigenerante abdicare, è quel retto lasciarsi, quel non aversi più, che è opposto allo scoramento, all'abbattimento e alla disperazione. È la fine dello sforzo: lo sforzo produce le nuvole, l'impegno genera ulteriori ostacoli, la tensione affatica; l'abbandono invece fa riemergere questo spazio pulito, semplice, riposante. Solitamente termini come conquista, cura, padronanza sono ritenuti contrari all'abbandono. Qui no.

Keizan Zenji (XIII sec)



© Tora Kan Dōjō



















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