Essere uomo significa
appunto essere responsabile. Significa provare vergogna in presenza d’una
miseria che pur non sembra dipendere da noi. Esser fieri d’una vittoria
conseguita dai compagni. Sentire che, posando la propria pietra, si
contribuisce a costruire il mondo.
Si vuol confondere
uomini simili con i toreri o i giocatori. Si loda il loro disprezzo della
morte. Ma del disprezzo della morte non so che farmene. Se esso non ha radice
in una responsabilità consapevolmente accettata, è indice unicamente di povertà
o d’eccesso giovanile. Ho conosciuto un giovane suicida. Fu spinto, da non so
più qual pena d’amore, a spararsi con cura una pallottola nel cuore. S’era
infilato un paio di guanti bianchi, e non so a qual tentazione letteraria
avesse ceduto; ma ricordo d’aver provato, di fronte a quella triste esibizione,
un’impressione non di nobiltà ma di miseria. Dietro quel viso simpatico, sotto
quel cranio d’uomo, non c’era stato dunque niente, proprio un ben niente.
Tranne l’immagine di non so qual sciocchina simile ad altre.
Di fronte a quella
sorte meschina ricordai una vera morte da uomo. Quella di un giardiniere che mi
diceva: “Sa... talvolta faticavo a vangare e avevo le fitte dei reumatismi
nella gamba. Imprecavo contro quella schiavitù. Oggi invece vorrei vangare, vangare
nel terreno. Mi sembra così bello, vangare! Si è così liberi, vangando! E poi,
anche i miei alberi, chi li poterà?”. Egli lasciava un terreno incolto. Era
vincolato amorosamente a tutti i terreni ed alberi della terra. Il generoso, il
prodigo, il gran signore, era lui!"
di Antoine de Saint-Exupéry
© Tora Kan Dōjō
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