Un
giorno, durante uno dei miei viaggi in Africa, stavo attraversando sulla mia
jeep lunghi tratti di strada assolati, lussureggianti e deserti.
Poi,
d’improvviso, appariva qualche agglomerato di capanne di paglia, fango,
lamiere.
E
subito gruppi di bambini seminudi, sporchi, di ogni età, richiamati dal
passaggio dell’auto: ci correvano incontro accogliendoci con esplosioni di
risate, saluti e allegria.
Ogni
tanto, ordinati nelle loro divise scolastiche, incrociavamo gruppi di giovani
studenti di ritorno da scuole lontane forse chilometri. E anche questi si
aprivano in sorrisi accoglienti, scherzando tra loro ed esprimendo una felicità
palpabile. A ogni passaggio, questi incontri mi lasciavano pieno di stupore e
di domande.
Come
poteva esistere quella felicità, quell’entusiasmo, quella gioia incontenibile,
in luoghi così poveri, degradati e deprimenti? I pensieri volavano verso le
nostre case confortevoli, in cui nessuno più si chiede perché c’è luce premendo
un interruttore, acqua pulita aprendo un rubinetto, cibo nel frigo e sulla
tavola, calore d’inverno e fresco d’estate. Nessuno si chiede perché possiede
vestiti, automobili, telefoni, televisori, decoder, computer, lavatrici,
frigoriferi e lavastoviglie.
Mi
chiedevo perché niente più ci sorprenda.
Pensavo
alle facce della gente per strada, bambini compresi, a Roma, a New York, a
Parigi o a Londra. Facce chiuse, tese, preoccupate, arrabbiate, tristi,
depresse o allucinate.
Che
razza di contraddizione era?
Perché
a volte, se non hai niente, riesci a essere felice, e se hai tutto, molto più
di quello che ti serve, sei insoddisfatto, depresso, infelice, incapace di
provare un filo di meraviglia e gratitudine?
Ho
ripensato a quei bambini africani molte volte, soprattutto dopo essere tornato
a casa, e finalmente ho capito che, a dispetto delle difficili e a volte
tragiche condizioni delle loro esistenze, ci sono nella loro vita e in quella
delle comunità di cui fanno parte almeno tre condizioni che nelle società più
ricche ed evolute sono via via venute meno e in alcuni casi scomparse:
il
senso di appartenenza, la volontà di condivisione, la capacità di offrire se
stessi.
In
queste condizioni, la felicità è sostenuta con forza dalla soddisfazione di
bisogni primari e naturali per la specie umana, legati anche alle necessità di
sopravvivenza.
Quei
bambini si sentono pienamente parte della loro comunità, del villaggio, della
tribù, della nazione. Condividono riti, tradizioni, credenze e spiritualità.
Non
hanno alcun dubbio su questi valori, di cui hanno bisogno per crescere e
strutturare la loro identità di persone. È così anche per noi?
Quei
bambini condividono con gli altri la stessa condizione esistenziale, e anche
quel poco che hanno è di tutti: il cibo, l’acqua, il fuoco, il raccolto. E
persino i genitori. In molti villaggi africani i bambini di una stessa tribù
chiamano mamma tutte le donne adulte della loro comunità, indipendentemente dai
legami biologici. Tutto viene condiviso: anche le emozioni, i sentimenti, le
speranze e le paure, riguardano tutti. E nessuno si appropria di niente
privandone gli altri. Facciamo così anche noi?
E
infine, la capacità di servire la propria comunità di appartenenza: per loro è
naturale fare a turno ciò che serve, aiutare la propria famiglia e il proprio
villaggio, andando a prendere acqua e legna da ardere anche lontano chilometri,
aiutando gli anziani o i malati anche solo facendo loro compagnia, offrendo il
proprio tempo e le proprie capacità agli altri quando serve, senza nemmeno
doversi chiedere se si ha voglia di farlo oppure no. E noi? La pensiamo così?
Ci comportiamo nello stesso modo?
No,
non lo facciamo ormai da tanto tempo. Da più di trent’anni studio gli esseri
umani, ma sono rimasto sorpreso e colpito dalla semplicità di questa naturale
ricetta della felicità.
Queste
tre condizioni sono necessarie, direi indispensabili, per ogni essere umano.
Siamo
stati creati e progettati con questi bisogni, che rispondono intelligentemente
anche alle leggi di sopravvivenza e di conservazione della nostra specie.
Quando anche una sola di queste condizioni viene meno, cominciamo a vivere
contrastando la nostra vera natura. E ci ammaliamo. Prima di infelicità e poi
di un infinito elenco di malattie, fisiche e psicologiche, che cerchiamo di
curare con farmaci, droghe, manipolazioni mentali, avidità e possesso. Tutto,
per non stare male, per non avere paura e sentirsi soli!
Ma
se vogliamo guarire davvero e provare a esser più felici, qui e ora, non
possiamo accontentarci dei medici, degli ospedali, dei preti e degli psicologi.
Cominciamo, invece, ad analizzare la nostra vita alla luce di queste tre
condizioni: appartenenza, condivisione, servizio. Diciamoci con sincerità cosa
manca.
Siamo
ancora in tempo per imparare di nuovo quello che già sapevamo e che abbiamo
dimenticato.
Siamo
ancora in tempo per scoprire che, se vogliamo, siamo in grado di riparare agli
errori e ricreare quelle semplici condizioni con cui la nostra vita può essere
infinitamente migliore.
© Tora Kan Dōjō
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