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Una statua di Dōgen Zenji - Kouan Temple |
http://iogkfitalia.blogspot.it/2016/11/commento-al-tai-taiko-gogejari-ho-di.html
Le lezioni hanno un carattere colloquiale di cui tener conto durante la lettura.
Pubblicheremo a breve anche la terza ed ultima parte.
Il
Tai Taikō invita a fare attenzione ai dettagli: al modo in cui si entra in una
stanza, come ci si muove nel Dōjō percorrendo le linee tracciate da una
millenaria tradizione. E’ un linguaggio che parla profondamente al nostro
inconscio e ce ne rendiamo conto, ne percepiamo la potenza, solo quando lo
viviamo.
Quando
facevo il Jikidō, nel Dōjō del Monastero Zen dove mi sono formato, quando
passavo nei pressi del seggio del Maestro e di altri monaci seduti in Zazen
percepivo sulla pelle che dovevo tenere una distanza, si attivava un istinto
animale.
Il
percepire la presenza e l’energia di una persona ti impone una distanza.
Per
gli animali dalla loro vigilanza dipende la loro sopravvivenza e difficilmente
hanno un comportamento trascurato, disattento. Io vedo tante volte, quando fate
kin hin, che qualcuno arriva quasi a camminare sulle gambe di chi è seduto,
oppure incombe su chi lo precede non rispettando la debita distanza, c’è gente
che ha perso la sensibilità per comprendere il valore e significato della
distanza, però magari si riempie la bocca di teorie sul rispetto, sulla
compassione… ma cos’è il rispetto se non la capacità innanzitutto di percepire
il tempo e lo spazio nella relazione? Come si fa a non percepire che se
‘incombi’ su di una persona gli stai mancando, in maniera aggressiva ed ottusa,
di rispetto? Che stai insidiando la sua libertà?
Oggi
siamo talmente anestetizzati da aver perso la capacità di percepire queste
norme naturali di comportamento, per gli animali sono ovvie e determinano la
loro sopravvivenza e non sarebbe male se anche l’uomo si ritrovasse di tanto in
tanto a rischiare la vita a seconda di come muove un passo, forse questo lo
rieducherebbe alla presenza e alla sensibilità.
Si
entra nel Dōjō passando non per il centro della soglia ma da un lato, significa
manifestare concretamente, senza intermediazione del pensiero, il proprio
rispetto e la propria delicatezza nei confronti del Maestro e di tutti quelli
che in quel momento praticano nel Dōjō.
Se
ad esempio un insegnante sta seduto non gli si arriva mai camminando da
davanti, semmai ci si avvicina camminando in seiza (come nello shikkō
dell’Aikido) oppure con dei passi laterali, entrando di lato e poi accosciandosi;
è un modo delicato e raffinato, un gesto di profonda educazione e questi modi
noi li possiamo utilizzare in tanti momenti della vita quotidiana… quando ti
avvicini ad una persona, quando cominci un discorso, anche con le parole
infatti si può fare quel gesto di entrare piano nel discorso, senza
aggressività, senza incombere sullo spirito del nostro interlocutore.
Sono
tutte cose apparentemente molto semplici ma che insegnano una profonda
filosofia di vita, lo Zen andrebbe studiato anche solo per questo. Questo è
illuminante! Già se la pratica Zen insegnasse a noi, alle persone che
frequentano il dōjō, a rivitalizzare la naturale sensibilità nella relazione
con gli altri, con le cose, con tutte le esistenze animate ed inanimate sarebbe
già una rivoluzione, una conquista eccezionale.
E
c’è sempre chi obietta: ‘ma gli altri non lo fanno, non hanno questa
sensibilità’ ed io rispondo bruscamente : ‘comincia a farlo tu!’. Le tue
maniere influenzano quelle degli altri, perché se tu sei attento, presente,
spesso anche la persona più rozza coglie questa cosa e, in qualche modo, anche
il suo atteggiamento cambia.
Il
Tokonoma, sul lato d’onore della stanza, non ha in genere molte decorazioni. Vi
è esposta di solito una calligrafia, al massimo una mensola bassa con un fiore
o un ikebana, non c’è altro. E’ molto semplice, molto sobrio ed elegante.
Quest’altra
esortazione del Tai Taikō è molto importante: ‘una lieve decorazione non deve
attirare troppo lo sguardo proprio come il comportamento in genere.’ E questo
ci dovrebbe interrogare su come ci comportiamo solitamente in tante situazioni.
Quanto è diffuso un atteggiamento molto rozzo, quello di voler necessariamente
dire: “ Eccomi! sono qua, sono così importante!”
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Taisen Deshimaru |
Riguardo
a questo una cosa che mi colpì profondamente nei primi tempi della relazione
col mio primo Maestro Zen. Prestava grandissima attenzione quando ti parlava,
il suo sguardo ti attraversava, però era anche capace di passarti accanto come
se tu fossi un fantasma, come se non ti avesse visto, anche quando magari ti
rivedeva dopo un mese. E tu eri lì che dicevi a te stesso: “non mi vede da un
mese, mi saluterà…” invece no, lui era preso dal suo lavoro (t’aveva visto
benissimo, sapeva benissimo quando eri arrivato, tutto quello che avevi fatto),
e ti stava insegnando che non sei poi così importante come credi di essere, di
certo non più importante di quel pezzo di legno da tagliare ben diritto.
Non
essendo poi io ancora educato ai modi del Tempio, non sapevo che c’è un modo di
presentarti di fronte ad un Maestro e se io ancora non ero in grado di
comprenderlo era meglio per lui ignorarmi piuttosto che redarguirmi, perché
magari non ero ancora in grado di capire. Per esempio una volta mi sgridò
perché lo salutai mentre io ero sul pianerottolo e lui in fondo alla scala. Non
si saluta mai un Maestro mentre tu sei in una posizione più elevata, in quel
caso meglio continuare a fare le tue cose, ignorandolo. E’ una delicatezza.
E
sono delicatezze e strategie relazionali ed educative che un vero insegnante
deve padroneggiare.
Adesso
con la mia esperienza trentennale d’insegnamento tante volte mi capita di far
finta di non vedere alcuni errori di allievi e di non correggerli, perché
capisco che in quel momento se io correggo quella persona, e non intendo solo
principianti, la faccio irrigidire, il mio sguardo la può far irrigidire.
Ho
visto l’errore e sarebbe facile correggerlo. Ma il mio compito di insegnante
non è solo correggere errori, fare la maestrina con la penna rossa, ma è quello
di portare gli allievi pian piano ad acquisire quella sensibilità e capacità di
cogliere i propri errori e di accettare e comprendere la correzione, perché
arriva al momento giusto.
Anche
perché se un allievo non ha sete di apprendere e correggersi puoi offrirgli
tutte le correzioni e spiegazioni che vuoi ma non avrà alcuna efficacia.
Questa
è una strategia pedagogica per la quale ho una mia personale sensibilità e che
vedo molto carente in altri insegnanti, anche con una discreta esperienza, in
genere subito pronti ad offrire lunghe spiegazioni, atte più ad esibire sé
stessi che ad offrire un sostegno all’allievo.
Uno
degli errori che in genere fa un insegnante alle prime armi (e spesso purtroppo
anche insegnanti ormai attempati) è quello di esibire sé stesso, l’opposto di
quello che serve agli allievi. Proporre durante le lezioni quello che lo
diverte di più, o in cui è più ferrato, ostentare la sua conoscenza con lunghe
spiegazioni quando non ce ne sarebbe bisogno, perché non è il momento
opportuno, l’allievo non ha ancora acquisito gli strumenti per comprendere tali
spiegazioni. La risposta non deve mai andare oltre la qualità di una domanda.
Cerco
di instillare questa sensibilità nei miei allievi che si muovono nella
prospettiva di diventare degli insegnanti a loro volta.
Qualcuno
sentendo queste parole potrebbe pensare che siano esagerate, però in realtà
tutta l’educazione Zen si fonda su questo, e questa raffinata, essenziale
educazione permette un certo tipo di sviluppo, di crescita, di maturazione.
All’inizio
è dura perché ci sono tante regole, e ti sembra di camminare in un campo
minato, ma questo amplifica la tua percezione, potenzia la tua concentrazione e
sensibilità e infine ti accorgi effettivamente quanto siano potenti queste
piccole delicatezze, queste attenzioni nei confronti di un insegnante, dei
compagni di pratica, di un oggetto che stai maneggiando…
Ormai
noi viviamo, anche le relazioni familiari, in una grande distrazione,
noncuranza, sciatteria, soprattutto quando poi le relazioni sono acquisite
(naturalmente queste esortazioni valgono anche per il sottoscritto).
Quando
esci con la fidanzata la prima volta dimostri il meglio di te, hai tante
attenzioni, poi, una volta che il rapporto è consolidato, si dimenticano questi
piccoli gesti, queste delicatezze, questa cura, questo modo di parlare, di
essere interessati all’altro. Diamo tutto per scontato, pensiamo di aver capito
tutto. E’ l’inizio della fine, la morte di una relazione. Ci sono quelli che
hanno il coraggio di capire che è finita, che la loro distrazione ha ucciso la
relazione e quelli che portano avanti relazioni così tutta la vita.
Sono
le piccole cose, i gesti quotidiani che fanno la differenza.
Offrire
qualcosa di cui l’altro ha bisogno al momento giusto, prima che te la chieda è
qualcosa di potentissimo ed è alla base dell’educazione che un Maestro Zen
impartisce ai suoi più diretti discepoli. Ti fa comprendere il cuore di una
persona, quanto sia attenta nella relazione. In Giappone si ricerca molto
questo e nello Zen è fondamentale, soprattutto nella relazione con un Maestro.
Perché in genere il modo migliore per apprendere lo spirito di un Maestro, per
ricevere la sua trasmissione di conoscenza e sapienza è fargli da attendente,
che vuol dire disponibilità totale in modo da stargli vicino il più possibile e
penetrarne profondamente il carattere.
Una
cosa impensabile per un occidentale allevato a base di rivendicazioni
sindacali.
Mi
ricordo che una volta invitai il mio Maestro a Roma a tenere una conferenza.
Pioveva e quando uscimmo mi fu naturale aprire l’ombrello e proteggerlo dalla
pioggia rimanendo io esposto. E mi ricordo ci furono persone, tra le quali un
maestro di karate che quindi dovrebbe avere questa cultura, che dissero: ‘eh
però è dimostrazione di arroganza, permettere a qualcuno di tenerti l’ombrello
…’. Io risposi: ‘Ma tu per tuo padre non l’avresti fatto?’
A
me sembra normale, non c’è niente di scandaloso. Un Maestro è come un padre,
forse anche di più, quindi qual è il problema? Eppure c’è gente che si
scandalizza di questo a causa della loro idea malata di democrazia, di
uguaglianza.
Io
ed il mio Maestro non siamo uguali, e da questa differenza e disparità nasce
tutta la ricchezza della nostra relazione. Non mi sento da meno ma non mi sento
uguale, e gli devo tutto il rispetto e fiducia che mi è possibile perché da
quel rispetto e fiducia nasce tutto il resto .
E
invece c’è questa mentalità diffusa di mal compresa democrazia e finché si
ragiona in questi termini come si può pensare di comprendere la relazione con
un insegnante o la pratica stessa? Sarai sempre portato a pensare: ‘e chi è
quello che pretende da me queste cose?’
e a dettare le tue condizioni. Ma non è lui che lo pretende, è piuttosto il tuo
modo di esprimere gratitudine, la tua predisposizione ad accogliere quello che
può arrivare da lui, che lui ne sia consapevole o meno.

‘Quando
indosserete questo Abito (il Kesa) e vi disporrete a parlare del Dharma, vi
manderò auditori e le mie parole passeranno attraverso di voi’ così insegnava
il Buddha ai suoi discepoli. L’ho sperimentato mille volte nella mia vita.
Senza
la capacità di mettere da parte sé stessi, il proprio orgoglio ed egoismo non
può esistere nessuna vera relazione maestro-discepolo né, a mio parere, nessuna
autentica relazione in generale.
Fine seconda parte
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