mercoledì 7 novembre 2018

La gentilezza dei giapponesi




Alcuni di noi l'hanno potuta toccare con mano, altri ne hanno sentito solo parlare e magari si chiedono se sia reale o solo uno dei tanti stereotipi: è la gentilezza nipponica, a volte così estrema da sembrare strana ai nostri occhi e da far salire il sospetto che sia falsa, solo una facciata, una maschera offerta all'estraneo, poco importa se sia straniero o giapponese. Per capire cosa ci sia dietro a tanta educazione, occorre scavare a fondo nella storia e nella cultura del Sol Levante e potremo così trovare diverse risposte.
Per ragioni di spazio non potranno essere risolutive o approfondite, ma spero basteranno per farvi vedere le cose da un'altra prospettiva, il primo e migliore passo per comprendere qualcosa che non si conosce.
Il fatto di essere un'isola, che per giunta è stata per lungo tempo chiusa quasi completamente rispetto al mondo esterno, ha sicuramente influito in generale su tutta la cultura nipponica che è estremamente omogenea.
Ma alla base della gentilezza dei giapponesi c'è sicuramente l'influenza del Confucianesimo arrivato dalla Cina nel VI secolo; questa religione ha insegnato che la collettività (quindi il paese in cui si vive) e il gruppo (cioè la propria famiglia) vengono prima di se stessi. Far parte di un insieme, vivere e lavorare perché esso prosperi e sia felice è più importante e più nobile che pensare solo al proprio io.
Questi insegnamenti si sono ben amalgamati a quelli dello Scintoismo (religione nativa del Giappone) in cui ogni cosa è pervasa da uno spirito divino e quindi ogni forma di vita va rispettata, che sia umana oppure no. Il tutto è trasmesso di generazione in generazione, responsabilizzando già i bambini ad occuparsi del bene comune e a pensare all'altro prima che a sè. E il tutto continua anche nell'età adulta, con un forte senso del dovere verso l'azienda in cui si lavora ad esempio e con una sottomissione pressoché totale verso ogni forma di autorità.
Tutto questo si riflette anche sulla lingua: chi studia giapponese ne è dolorosamente consapevole. Esistono infatti differenti livelli di linguaggio con differenti livelli di formalità, per cui anche solo per dire "buongiorno" si useranno formule diverse a seconda dell'interlocutore: si dovrà tener conto della gerarchia (superiore o inferiore di grado), dell'età (gli anziani sono tenuti in gran considerazione), del sesso (alcune frasi sono appannaggio esclusivo degli uomini, così come altre lo sono per le donne), perfino del momento della giornata!
Immaginiamoci cosa succederà nel momento in cui si dovrà pronunciare un rifiuto: il "no" secco (fosse anche solo per sapere dal commesso se è presente in negozio l'oggetto che stiamo cercando) non è contemplato. La risposta sarà sicuramente un giro di parole, come per esempio "Non so se sarà possibile darle quello che mi sta chiedendo". Non è una presa in giro, ma è un modo per non mettere in imbarazzo, per non deludere, per essere gentili anche nel momento del rifiuto. E il linguaggio non verbale si adatterà per esprimere anch'esso umiltà e disponibilità.
Tutto è studiato per ridurre al minimo gli attriti, considerando anche il fatto che alcune zone dell'arcipelago sono densamente popolate e gli spazi sono molto ristretti. Quindi i giapponesi evitano ogni discussione inutile e spesso, nel fare questo, non esprimono quasi mai la loro opinione su un argomento, soprattutto se è in contrasto con il loro interlocutore. Così facendo non si farà sentire a disagio l'altra persona e non si perderà tempo, considerando che probabilmente ognuno resterà fermo sulle sue posizioni.
Con gli estranei si mostra il "tatemae" cioè un atteggiamento in cui il sè si annulla e si adatta all'altro, mentre all'interno della cerchia di persone più intime prevarrà lo "honne" cioè il poter dire esattamente quello che si pensa e si prova. Ed è questo che spesso mette a dura prova la comprensione fra lo straniero e il giapponese: chi viene da fuori si sentirà preso in giro e tradito da questa presunta mancanza di sincerità. Ma occorre precisare che spesso tutto ciò non nasconde cattive intenzioni, non c'è la volontà di "fregare" l'altro ma semplicemente di vivere in pace.
Seguendo lo stesso principio si ottengono mezzi di trasporto affollatissimi ma molto silenziosi e strade calpestate da una marea di persone ma pulitissime: se ognuno facesse i propri comodi senza pensare al bene comune, gli spazi collettivi sarebbero un disastro e la situazione, soprattutto nei grandi conglomerati urbani, diventerebbe presto invivibile.
Quindi ci si fonde con la massa, si diventa un tutt'uno e non ci si espone, nemmeno per valorizzare se stessi: la modestia e l'umiltà prima di tutto. Anche se si è bravi nel proprio lavoro, si minimizzeranno i complimenti che si ricevono, ci si schernirà per i servizi resi, anche se magari sono costati molta fatica.
Ovviamente per riuscire a far sì che questi atteggiamenti siano spontanei, alla base c'è un'educazione che inizia fin da piccolissimi. I genitori prima e la scuola dopo inculcano le regole del saper vivere giorno dopo giorno, incitando i bambini a obbedire senza mettere in discussione nè loro nè le autorità. Già dall'asilo gli alunni sono responsabilizzati affidando loro le pulizie delle classi ad esempio e privilegiando le attività di gruppo (vedi i famosi club scolastici a cui è strano non essere iscritti).
A tutto questo aggiungiamo poi la divisa che farà sentire la persona ancor più parte della comunità, rendendo uniforme anche il colpo d'occhio dall'esterno. Divisa che l'individuo si porta dietro per tutta la vita: pensiamo al completo da ufficio dei salaryman. Ma c'è anche chi riesce a ribellarsi alle regole, pur conservando i principi di rispetto dell'altro e della cosa comune: sono gli artisti che dal design alla moda creano oggetti o abiti al limite della stravaganza, dando vita ad esempio a quel famoso street style che i cacciatori di tendenze ricercano spesso lungo le strade di Harajuku.

Stefano Lazzarotto




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