domenica 15 settembre 2019

Il mio Viaggio personale


Il mio contatto con lo Zen iniziò negli anni '50. 
Quando ero nella mia prima adolescenza, la rivista Life pubblicò una serie di articoli sulle religioni del mondo. Ricordo una foto di un buddhista seduto in una bella postura meditativa. Fui attratto dalla semplicità del rettangolo nero del corpo umano sulle stuoie del tatami. 
La didascalia dell'immagine recitava: "Nelle profondità del pensiero".
Mi fece intuire che i nostri corpi dovrebbero riflettere la bellezza e la profondità del nostro pensare. Fu più tardi, quando ero al college, allorché lessi storie di monaci zen e della loro straordinaria compassione, che mi dissi: “Voglio essere così". 
In queste storie zen incontrai esempi dinamici, in movimento, di persone che stavano facendo il bene ed erano gentili, amorevoli. E in qualche modo erano accessibili.
Gli esempi di compassione nel Cristianesimo erano spesso troppo distanti perché potessi pensare di emularli, ad esempio il riportare qualcuno alla vita dalla morte o il camminare sulle acque. Questo modo di fare il bene non sembrava pertinente al mio mondo. 
Ma fare il bene essendo gentilmente amorevole, o lasciar andare l’attaccamento, o essere flessibile in modo utile, questo sembrava pertinente.
Più studiavo e praticavo la meditazione e più mi sentivo grato di aver trovato questo modo di sedere: così semplice, così in grado di consumare tutto, di abbracciare tutto, e così efficace. Ma praticare da solo era difficile e contraddittorio. Cercai di convincere i miei amici a sedersi con me, ma non ci stettero.
Alla fine, compresi la necessità di avere il sostegno di compagni di pratica e di un insegnante esperto. Sentii parlare di un gruppo di persone che studiavano con un maestro zen di nome Suzuki Roshi a San Francisco e, nel 1967, a ventiquattro anni, lasciai l'università per unirmi a loro.
Suzuki Roshi
Com'era Suzuki Roshi? 
Sono tentato di dire che era quieto, gentile, attento e  interessato a tutto, ma queste parole non lo descrivono in  modo adeguato. Cambiava costantemente. 
In uno dei primi  discorsi che gli sentii fare, ci disse di non essere illuminato. 
Io pensai: Ahi ahi! Ho lasciato la carriera accademica 
e tutti  gli amici per studiare con quest'uomo, 
e ora mi viene a dire  che non è un maestro illuminato.  
Ma poi pensai: È comunque il migliore che abbia mai visto,  dunque resterò.  
La settimana dopo fece un altro discorso, e stavolta disse:  "Sono Buddha", e io pensai: Questo va meglio. 
Non ero veramente preoccupato se fosse illuminato o no:  volevo solo praticare lo Zen con lui. 
E lo faccio ancora.  
Decisi abbastanza presto nella mia pratica di mettermi a sua  disposizione e, se ci fosse stato qualcosa che voleva  insegnarmi, sarei stato li a impararlo.  
Avrei fatto di me stesso qualcosa di simile a una parte del  mobilio della sua vita, con la quale avrebbe potuto avere a che fare. 
Lo zendo (la sala di meditazione) nella prima sede dello Zen Center era al secondo piano. 
Per arrivare in cima c'era una lunga scala con ringhiere. In fondo alla scala c'era un pilastro di base dalla sommità rotonda. 
Ogni volta che Suzuki saliva o scendeva, metteva la mano sulla sommità del pilastro per appoggiarsi.
Volevo diventare come quel pilastro. Se voleva mostrarmi qualcosa, ero li a farmela mostrare. Se voleva che l'aiutassi, ero li ad aiutare. Non pensavo a questo nel senso di fare qualcosa per farmi apprezzare o per fargli piacere, ma solo per rendermi disponibile a qualunque rapporto fosse appropriato. 
Non mi aspettavo che fosse mio amico, ma volevo che fosse il mio maestro.
Questo modo di relazionarmi a lui funzionò benissimo, perché era solito invitarmi a guidare il canto o a fare l'offerta durante il servizio. 

Nella tradizione giapponese, l'apprendimento avviene in genere per l'80 per cento attraverso l'osservazione e per il 20 per cento attraverso le istruzioni. Talvolta mi chiedeva di fare queste cose senza prima addestrarmi, perché ero sempre li ad osservarlo. 
Dopo aver praticato per due o tre anni a stretto contatto con lui, gli chiesi se mi volesse ordinare prete. Mi disse che ci aveva già pensato anche lui, e un paio di mesi dopo mi fu rasato il capo e fui ordinato.
La mia motivazione principale, nel diventare prete, era di essere come lui. 
Il fatto che uno degli elementi principali della cerimonia sia il ricevere i Sedici Grandi Precetti del Bodhisattva non era importante per me. Il ricevere i precetti era solo una parte del mio processo di assimilazione al mio maestro. Volevo essere in grado di praticare nel modo in cui praticava lui. Volevo essere in grado di rispondere nello stesso modo compassionevole che usava lui. Volevo entrare in intimità con l'essenza della sua pratica.
Un mese prima della mia ordinazione divenni direttore del Centro di Città del San Francisco Zen Center, dove lui viveva.
Ero anche l'ino, la persona incaricata della sala di meditazione e della pratica formale. Dal momento che avevo queste due posizioni-guida, cominciai a lavorare a strettissimo contatto con Suzuki Roshi.
Sin dai primissimi giorni della mia pratica con lui, nella mia mente sorsero molte domande.
Ero solito buttarle giù in un taccuino, così, ogni volta che lo incontravo, avevo domande da porgli.  Era sempre molto accomodante. Non diceva mai: Stai facendo troppe domande.
Ma qualche volta avevo l'impressione di assorbire troppo del suo tempo con le mie domande, e mi contenevo. Non appena fui in una posizione di guida, mi vennero molte più domande da fargli, sulle responsabilità per il tempio e la sala di meditazione. 
Ma ora sentivo che le domande non erano solo per me, così non dovetti più contenermi.
Reb Anderson con Suzuki Roshi a Tassajara 
Poiché responsabile dell'edificio, mi  assegnai una stanza attigua alla sua. Ogni  volta che entrava nelle sue stanze o ne  usciva, doveva passare accanto alla mia  porta. 
Talvolta lasciavo la porta aperta in modo  che potesse affacciarsi e commentare ciò che stavo facendo. Divenni il suo  attendente non ufficiale, ed egli era solito  richiedermi varie forme di assistenza,  come  il cambiare le lampadine e il  riparare  la televisione. 
Verificavo se l'antenna era collegata e la TV attaccata alla corrente, e in genere riuscivo a risolvere qualunque problema avesse. Sembrava pensare che fossi un genio dell'elettronica.
Nel marzo del 1971 mi chiese di fargli da attendente per una sesshin (un ritiro di meditazione) che stava guidando a Portland, in Oregon. 
Durante una seduta di meditazione cadde in avanti e poggiò la testa al suolo. Quando gli chiesi che problema avesse, disse di avere un terribile dolore all'addome.
Mi chiese di guidare la sesshin fino alla fine. Al termine del ritiro aveva ancora notevoli dolori e sputava bile. Al ritorno a San Francisco, in aereo, ebbi difficoltà anche solo a stare seduto al mio posto vicino al mio maestro sofferente. 
Quando scendemmo dall'aereo, sua moglie e la sua segretaria erano in attesa. Gli offrirono una sedia a rotelle, ma lui disse: “Non ho bisogno della sedia a rotelle: sono un maestro zen". Sul momento mi chiesi cosa intendesse con quella frase. Quando tornammo allo Zen Center e salimmo nella sua stanza, fece qual cosa che non gli avevo mai visto fare prima. 
Si sciolse l'abito e lo lasciò cadere sul pavimento. Pensai che dovesse soffrire terribilmente, per non seguire il suo modo usuale di ripiegare l'abito con cura. 
Fu chiamato il dottore e presto arrivò un'ambulanza per portarlo in ospedale. Stavolta, invece di una sedia a rotelle, fu portata una barella. Ma non disse: Sono un maestro zen; si limitò ad accettare la barella.
In ospedale gli tolsero la cistifellea che, anche se sul momento non ce lo disse, conteneva un tumore maligno. Dopo essersi ripreso dall'operazione sembrò migliorare; in un certo qual modo, sembrava persino più in salute di prima. 
Ma ricordo che, durante uno dei suoi discorsi, si voltò e mi guardò dritto negli occhi, e disse con grande intensità: 
"Le cose insegnano meglio quando stanno morendo". 

Pensai fra me e me: Perché lo sta dicendo con tanta forza? Non riuscii a capire che cosa ci stava dicendo di se stesso.
Più o meno in quel periodo si stava preparando ad andare a Tassajara, il nostro centro di ritiri in montagna, per l'estate. Fu l'ultima volta che andò a Tassajara. 
Sentii dire dagli studenti che erano con lui che si riversò davvero nel suo insegnamento.
Sebbene non abbia ascoltato quei discorsi di persona, più tardi lessi la loro trascrizione. 
I discorsi sottolineavano con forza la pratica dei precetti del bodhisattva. 
Mentre sentiva avvicinarsi la sua morte, impartì sempre più insegnamenti sui precetti zen.
Quando tornò da Tassajara alla fine dell'estate, era esausto e aveva la pelle gialla. Pensammo che avesse l'epatite, e per un po’ tutti fecero molta attenzione a non prenderla da lui. 
Poi scoprimmo che non si trattava di epatite, ma di cancro al fegato. Egli riunì i suoi studenti più intimi e ce lo rivelò, nel settembre del 1971. 
Poiché la mia stanza era attigua alla sua, ebbi l'opportunità di aiutarlo durante la fase finale della sua malattia. Non faceva più lezioni formali o dokusan (colloqui sulla pratica), ma per un po' fu ancora in grado di venire allo zendo a meditare con noi.
Gradualmente salire e scendere le scale gli divenne troppo difficile, e alcuni di noi erano soliti fare una sedia con le braccia incrociate e portarlo su e giù fino alla sala di meditazione o al refettorio della comunità.
Si faceva fare massaggi shiatsu e moxibustione da un prete giapponese che viveva al tempio, e io gli chiesi se potevo star seduto nella stanza con lui mentre si sottoponeva a questi trattamenti.
Dissi: "Starò tranquillo. Non farò domande”.
Acconsentì. Così lo osservai mentre veniva massaggiato, e lo osservai reagire ai piccoli coni di erbe che si consumavano, bruciando, sulla sua schiena. 
Quando il massaggiatore si ammalò, Suzuki Roshi mi chiese di sostituirlo. 
Poiché ero stato lì, ad osservare con cura, ero in grado di subentrargli. 
Sebbene amassi praticare con Suzuki Roshi secondo le forme tradizionali dello Zen, questi ultimi mesi in cui fui con lui informalmente sono inscritti nelle mie ossa. 
Sono stato molto fortunato ad avere parecchi contatti personali con lui. La sua malattia avanzò molto più rapidamente di quanto chiunque avesse pensato. 
Invece di avere due o tre anni di vita, mori circa tre mesi dopo la notizia del cancro. Non prese antidolorifici, e il dolore fu molto.
A un certo punto disse di sentirsi come se lo stessero torturando. Anche se alcune delle sue facoltà sembrarono diminuire, la sua gentilezza e la sua premura verso i suoi studenti non calarono.
Continuò la sua grande opera d'insegnamento fino alla fine.
Spesso i maestri zen muoiono nella postura seduta formale, o anche in piedi.
Suzuki Roshi morì sdraiato. Morì durante il primo periodo di zazen del ritiro di meditazione noto come rohatsu sesshin, che celebra l'illuminazione del Buddha Shakyamuni.
Morì al piano superiore mentre, al piano di sotto, 132 persone sedevano rette nella sala di meditazione. 
La sua vita è affluita nella pratica dei suoi studenti.







Tratto da “Meditazione Zen, La Via del Bodhisattva
di Reb Anderson
Traduzione di Dario Dôshin Girolami
Ed. La Parola





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