Pubblichiamo
un breve passaggio tratto dal libro curato da Alessandro Romagnoli (cintura
nera secondo dan IOGKF) "Priscae Matri – Appunti
di un viaggio". Si tratta di un libro di memorie che segue la vita di Ezio, il
papà di Alessandro, dall’infanzia povera e felice immersa nella provincia
italiana del dopoguerra, al trasloco a Roma negli anni della ricostruzione e
del boom economico. Qui riportiamo un momento di passaggio, il trasferimento
dal paese alla città vissuto con gli occhi spaesati di un tredicenne. Ogni trasloco,
ogni cambiamento che affrontiamo ci riguarda e ci interroga in prima persona, così
negli occhi sperduti di Ezio ritroviamo la nostra stessa malinconia, e la paura
mista alla speranza e alla voglia di vivere. Per ben due volte nel brano il piccolo si
addormenta, lasciandosi andare agli eventi. Nelle pagine che seguono
altre avventure inaspettate attenderanno Ezio, che nella grande metropoli metterà
radici e famiglia.
Seduto
sulla soglia di casa, aspettavo. Mia sorella raccoglieva i nostri panni
nell’unica valigia che avremmo portato con noi. Poggiai la schiena contro
l’anta chiusa della porta e rivolsi lo sguardo verso il cielo limpido del
mattino. Il sole di luglio scivolò lentamente sulla mia faccia. Chiusi gli
occhi e lasciai che il calore occupasse tutto il resto del corpo e con lentezza
il torpore si fece quasi sonno. Ripensai a quegli ultimi giorni trascorsi da
soli, mia sorella ed io. La partenza di mamma e papà aveva lasciato un sapore
amaro, intriso di solitudine. La sera, per cena, mangiavamo malinconia
nell’attesa del ricongiungimento.
L’anno
scolastico era terminato già da qualche settimana e nessuno ancora mi aveva
detto dove avrei frequentato l’ultimo anno del corso. Tutto stava cambiando
rapidamente, con decisioni prese in fretta e poco altro da dire. Un capitolo
del nostro libro lo stavamo lasciando lì, in un cantuccio della piana di Santa
Scolastica ed io avevo come la sensazione che stessimo dimenticando qualche
cosa d’importante.
D’improvviso,
poi, il fragore di un camioncino irruppe tra i vicoli, nel gruppo di case poco
più sotto, spezzettando i miei pensieri. Il rumore si fece incombente, si
accompagnò con dei colpi di clacson. Dischiusi gli occhi, mi alzai e scrollai
di dosso il sonno e le fantasie che lo accompagnavano. Un istante dopo, quel
camioncino mi si parò davanti con una frenata secca.
- Allora
giovino’, pronto per il trasloco? -, gridò mio fratello Roberto, sporgendosi
dal finestrino con un largo sorriso.
“Non
mi pare un trasloco, ma una fuga”, pensai, ma non dissi nulla e mi precipitai a
salutarlo. Roberto mi abbracciò. Poi, trattenendomi, si voltò verso il
conducente del camioncino e disse: - Angelo, ‘sto regazzetto è mi’ fratello
Ezio. Che te ne pare?
Tornò
di nuovo con lo sguardo verso di me: - Ammazza’, te sei fatto ‘n’omo! –
sentenziò.
Fece
una breve pausa di riflessione, poi continuò: - Aspetta un po’… stamo nel 1955,
tu sei del 1942, dunque…aho! C’hai tredici anni.
Non
aggiunsi altro, guardavo Angelo lasciare il posto di guida, chiudere lo
sportello con uno schiaffo e venirmi incontro. Mi strinse la mano,
presentandosi: era un amico di mio fratello venuto per dare un aiuto, mi disse.
Il camioncino con cassone telato, un po’ malridotto a dire il vero, era suo.
Nel frattempo, Giuliana si era affacciata sulla porta di casa e chiamava
Roberto, lui si voltò e gli fece un cenno di saluto. Entrammo in casa, che in
tutto erano due stanze, bagno e cucinetta. Angelo e Roberto si diedero una
rinfrescata e bevvero dell’acqua. Il primo mostrava d’aver fretta di iniziare,
disse che intendeva ripartire nel pomeriggio per essere presto a Roma.
Facemmo
un breve sopralluogo nelle stanze, elencando a voce le cose da portare via. Ai
due, precisai i mobili che la mamma, prima di partire per Roma, si era
raccomandata di portar via assolutamente. Tutti d’accordo, iniziammo a caricare
la masserizia sul camioncino: mia sorella ed io raccoglievamo le cose più
leggere, mentre Roberto e Angelo si occupavano della mobilia. L’amico di mio
fratello, però, dimostrò subito di non essere un mostro di forza. O forse aveva
troppa fretta di lasciare quel luogo. Sta di fatto che quando provava a
sollevare qualcosa di un po’ pesante, si fermava e diceva:
- Robbe’
ma questo che lo portate a fa’? A Roma co’ du’ sòrdi, ve ne comprate uno nòvo! -
Questa
scenetta si replicò più volte, finché, lui e Roberto caricarono in pratica solo
le cose più leggere e meno ingombranti, seppure, alle tre del pomeriggio, il
cassone del camioncino fosse riempito. Facemmo una pausa per darci una
rinfrescata, quindi, salimmo a bordo: Angelo alla guida, Roberto e Giuliana in
cabina. Sul cassone, tra la mobilia accatastata e la sponda, si trovò pure un
posticino per me. Poi Angelo avviò il motore e partimmo.
In
questo modo sbrigativo lasciavo, dunque, i miei monti e il mio paese, mentre mi
chiedevo quando, e se, sarei tornato. Non riuscii a portare neanche un saluto
ai miei amici d’infanzia, né un abbraccio ai pochi parenti rimasti.
Accovacciato contro la sponda del camioncino, stretto nel mio posto, vedevo
strade e case allontanarsi, farsi sempre più piccole. Ogni singola cosa
scivolava via dal mio sguardo, lasciando un esile velo sugli occhi. Mi sforzavo
di non perdere nulla alla vista. Neanche la più piccola tessera del mosaico che
dietro di noi andava rompendosi. Soffocai un ultimo addio nel mio petto,
intanto che la strada si scioglieva in curve che mi sbattevano qua e là.
Stremato, lasciai cadere la testa all’indietro e mi addormentai.
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