sabato 27 giugno 2020

Meditare è esporsi all'essere



Ma la postura è soprattutto una postura del cuore, senza la postura del cuore non c’è nemmeno quella del corpo o è forzata e rigida.
La postura del cuore è: io sono qui, aperta a qualsiasi cosa sorga e mi visiti, sono radicata a terra, sento il suo sostegno, e insieme mi alzo verso il cielo, nello spazio, li cucio. Il respiro è il mio alleato, mi fa stare qui in questo momento che fugge, nel presente che non è un tempo, sono seduta come un gatto, pronto a lanciarsi nel mondo se necessario.
Sono seduta per conoscere, non per fuggire in un mondo solo interno, in un oltre. Sono seduta perché tutto brucia di illusione e di incantamento e ora so che non voglio piú essere incantata, che voglio svegliarmi.
Sono seduta e seguo umilmente e con pazienza il respiro perché so che pensare non dà soluzioni, solo aggiunge nuove narrazioni all’autonarrazione e la narrazione non è la vita. La voce dell’autonarrazione non è nostra, è convenzionale, antenata, è strategia di sopravvivenza.
La postura è esporsi all’essere.
Dunque, sedersi in meditazione, accogliere in silenzio il respiro, conoscere senza pensare, è un gesto politico. Ha una portata collettiva indelebile, mi trasforma e con me trasforma tutto il mondo attraverso il cambiamento del mio atteggiamento verso ogni fenomeno con cui entro in contatto, non solo mentre medito, la meditazione formale non è che una palestra, un laboratorio, ma sempre e ovunque, nella vita quotidiana che è l’unica che c’è.



tratto da: Candiani, Chandra Livia
Il silenzio è cosa viva: L'arte della meditazione. Einaudi.


© Tora Kan Dōjō
















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mercoledì 24 giugno 2020

Vediamo solo quello che noi siamo





C'era una volta un vecchio seduto all'ingresso di una città.
Un viaggiatore si avvicinò a lui e gli chiese :
" non sono mai stato qui. Come sono le persone in questa città? ".
Il vecchio gli rispose con una domanda:
" com'erano le persone nella città da cui provieni? ".
"egoisti e cattivi, questo è il motivo per cui ero ben contento di partire", disse il giovane.
Il vecchio rispose:
"troverai le stesse persone qui".
Un po ' più tardi, un altro viaggiatore gli pose la stessa domanda:
" sono appena arrivato in zona. Come sono le persone che vivono in questa città? "
Il vecchio rispose ancora una volta con la stessa domanda:
" dimmi ragazzo, com'erano le persone nella città da dove provieni? " "
" Erano gentili ed accoglienti. Avevo dei buoni amici e ho avuto difficoltà a andarmene," rispose il giovane viaggiatore.
" troverai qui lo stesso genere di persone" rispose il vecchio.
Un uomo seduto lì vicino aveva sentito tutto e chiede motivo al vecchio saggio delle sue risposte contrastanti.
Quest'ultimo rispose:
" ognuno porta in sè la sua visione del mondo. E chi apre il suo cuore cambia anche il suo sguardo sugli altri. "




© Tora Kan Dōjō



















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sabato 20 giugno 2020

La postura, “Istruzioni per l’uso”

Assumere l’immobilità

Quando sedete in Zazen, non dimenticate alcune operazioni importanti: il saluto verso lo zafu è rivolto alle persone che siedono accanto a noi, quello verso il centro alle persone che si siedono di fronte. La rotazione in senso orario è altrettanto importante. Sedere non significa appoggiare il culo sullo zafu, ma la zona perineale. Si dice in questo caso che l’ano guarda il sole, sorride al cielo. E’ preferibile la posizione del loto completo o tutt’al più il mezzo loto. Accostate subito le mani all’addome. Da questo momento bisogna armonizzare il corpo con la mente. Come? Con il respiro. S’inspira e si espira la prima volta in modo da portare la forza dell’espiro nell’addome. Una volta dato fondo all’espiro si inizia ad oscillare, facendo partire il movimento dalle anche. Il corpo si stabilizza sulla verticalità e siete in Zazen. Bisogna sedere immobili: l’immobilità è assunta con una certa gradualità. Se fosse possibile, prima di sedere, dovreste lavarvi mani, faccia e piedi. Lo Zazen non è una tecnica di meditazione, è entrare in uno stato in cui finalizzazione e funzionalizzazione vanno abbandonate naturalmente: non si fa Zazen per qualcosa o per qualcuno, neanche per voi stessi. Questo vi richiama in termini di corporeità. Quando siete veramente seduti non sapete di essere seduti, tuttavia non avete perso coscienza.

Il respiro

Sedete in Zazen con ferma determinazione: c’è comunque un ampio spazio per una sottile e leggera flessibilità, adattabilità. Così, quando si respira, non si può solo inspirare e solo espirare, ma inspiro ed espiro si alternano. Inspirando, vedrete che basterà un breve e semplice inspiro. Comincerete a espirare ed inspirare diffondendo salvezza per gli altri. Buddha per me inspira. Buddha per gli altri espira. Il vostro espiro si prolunga come mai l’avreste immaginato, senza fatica. Da qui un nuovo breve e pieno inspiro di Buddha per me. Concentrazione – espansione. È il respiro dell’universo, spirito universale, santo. Respira, ma nessuno sa da dove il respiro viene e dove va. Questo è l’inizio vero dello Zazen e il suo termine. Hotsu-bodaishin, il risvegliarsi dello spirito, Bodhicitta. Il momento di questo Risveglio e un momento di pratica, di realizzazione, di compassione, di liberazione.

Pensare con l’addome


Riducete la distanza fra le ginocchia; tenete bene la caviglia sulla coscia, la concentrazione cade automaticamente sull’addome. È lì che abbiamo un secondo cervello. Come pensare con l’addome? Davanti al viso si congiungono le mani in un gesto di unità, di armonia: la mente deve essere raccolta nelle mani, che poi si posano in grembo, ben in contatto con l’addome. Le dita belle distese, i pollici orizzontali che si toccano appena ma costantemente, si sfiorano come se volessero trattenere delicatamente un foglio di carta. La testa ben piazzata, come se dovesse sostenere il cielo stesso. Immaginate sul capo in equilibrio un peso, un’anfora. Rientrate il mento, date forza alla nuca. Poi fate attenzione allo sguardo che è legato alla nuca. Socchiudete gli occhi senza fissare un punto. Più sedete con energia, più questo influenzerà il vostro sistema nervoso. Sedete con la pancia, non tirate la schiena  e basta: così potrete tenere la concentrazione senza sforzo. Da qualche tempo non insisto più sul fatto di portare la concentrazione sulla colonna vertebrale: il piano del plesso solare è come se rientrasse un po’, morbido, molto morbido; alla stessa altezza delle scapole la colonna va rilassata per possa raddrizzarsi; di conseguenza si dà forza alla nuca e al tronco.

Volete- vi bene

Solo all’inizio occorre seguire in modo molto minuzioso. Alcuni in breve capiscono, per altri molti anni sono pochi. Comunque non è uno sforzo atletico. Con questo corpo sediamo giocando un gioco infinito le cui regole sono solo indicative: schiena dritta, gambe incrociate, mento rientrato, sguardo abbassato, respiro regolare. L’importante è volersi bene, con tutto il calore della vostra viva presenza. Anche per il kyosaku esistono indicazioni generiche, ma lo spirito del kyosaku è quello dello spaventapasseri che immobile, inutile, inerte sorveglia il campo seminato, svolgendo tuttavia la sua funzione. Questo è essere concentrati: pensare sì, ma non rimanere impigliati nelle proprie categorie. La vita del Dojo, la postura di Zazen sono vita e postura sublimi, confrontati alla morte istante per istante. Basta guardare alla morte decisamente per trovarsi in un lago di tranquillità: è Zazen, continuare a passare attraverso. Quindi il Dojo è vivo, un polmone che respira, ed è vicino alla strada. Chi porta il kyosaku, come chi siede in Zazen, è come un guerriero fieramente installato sulla sua cavalcatura. Inutile dirlo ai miserabili uomini di oggi, che guardano il marciapiede di fuori. Ma se una sola volta lo fate, se con vigore sedete in Zazen, come come la tigre che entra nella grotta della montagna, come il drago che rientra nell’acqua: ritrovate la vostra vita originale. Sono immagini che usa il Maestro Dogen. In questa pratica imparate a concentrarvi sul corpo, sui punti importanti della postura: la coscienza vien da sé. L’importante è sedere insieme influenzandosi reciprocamente, affrontando la grande avventura per questa Via. Solo così riusciremo veramente a capire che la nostra coscienza non è limitata al pensiero.

Dipendenza, indipendenza, inter-dipendenza

Qualcuno fa fatica ad incrociare le gambe: non è un problema solo fisico. Vi invito a camminare senza sbattere le gambe contro l’abito: concentratevi, controllate il corpo, restituitegli libertà. Caviglie, ginocchia, dita dei piedi possono muoversi liberi, non come blocchi unici. Per un attimo, pensate alle vostre mani: potete avvertire una grande ricchezza di articolazioni, cinque più cinque dita che interagiscono fra loro in modo complesso. Se vi concentrate adeguatamente sulle mani vi accorgerete che la postura cambia. Le mani sono l’immagine di tutta la postura. Il mudra influenza tutto il corpo. Se lasciate che ogni dito sia se stesso, che non sia il vostro dito, questo interagisce liberamente. Non solo lo Zazen dei pollici diventa lo Zazen del corpo, ma lo Zazen della schiena diventa lo Zazen delle montagne e delle pianure. Dovete capire questo punto in termini di dipendenza e indipendenza, quindi di interdipendenza, intesa non solo come di reciproca dipendenza. Lasciate che ogni parte del corpo faccia il proprio Zazen, abbia la propria difficoltà e non la vostra…


Appassionatamente

La vostra preoccupazione non deve essere quella di irrigidire il corpo. È più complesso. A partire dalle istruzioni che ricevete, dovete prodigarvi appassionatamente a trovare il vostro equilibrio fisico e spirituale. In queste condizioni vi sentirete rigenerati. È come se la circolazione del sangue, l’energia nervosa e tutto  il resto fluissero meglio. Chiudete naturalmente la bocca, accostate i denti, appoggiate la lingua al palato superiore in modo da rilassare il viso. È importante sedere a lungo senza fatica, direi anche con un sentimento di rigenerazione. Anche se non è questo il fine, può anche avvenire. Così il pensiero si fa profondo, ritmato, ma inconsciamente. Questi sono i primi sintomi di una coscienza che sia inconsciamente creativa, libera, non ripetitiva. Vedete, così la nostra vita biologica non dipende da noi- o meglio, dipende in parte da noi, ma il risultato di un’azione complessissima, remotissima – così anche spiritualmente siamo discendenza, ed è importante che tutto questo sia in una qualche misura consapevole in voi.

Kin- hin, meditazione camminando

Tenete le mani leggermente discoste dal petto, le dita costantemente serrate, i gomiti un po’ alzati, in modo che con i polsi costituiscano una linea orizzontale completamente parallela al terreno. La parte superiore, dalla cintola in su, deve essere ben leggera, proiettata verso l’alto, la parte dalla cintola in giù ben pesante, quasi affondasse nel terreno. Il vostro corpo deve guadagnare in stabilità. Il resto del corpo, specialmente la testa, è come se sorreggesse una pila di libri, un cesto, qualcosa da mantenere in equilibrio. Capite che l’atteggiamento è quello atto a rettificarla vostra postura in generale. Ispirandovi a questo nuovo equilibrio , cercate di riprodurlo ogni volta che potete: passeggiando, lavorando, muovendovi in casa… Consapevoli dei vostri passi anche più veloci, consapevoli del vostro respiro, del vostro sguardo. L’importante è che per un periodo considerevolmente lungo riprendiate l’abitudine a guardare dritto davanti a voi. Se poi tocca guardare di lato, allora anche il corpo dovrà essere girato per far fronte a ciò che sta davanti a noi, ciò che ci interessa. La pratica suppone esperienza, ma se uno non ha capito l’esperienza della pratica, può sedere da molto tempo, ma senza alcuna progressione.



   F. Taiten Guareschi Roshi
Una Parodia che smaschera l’io
La Voce che Ascolta edizioni


© Tora Kan Dōjō











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martedì 16 giugno 2020

Chi ha orecchie, intenda.

Quanto segue è la prefazione che Raimon Panikkar ha scritto al testo 'Il Vangelo
secondo Giovanni e lo Zen' edizioni Dehoniane di Bologna.
Il libro è stato scritto da p. Luciano Mazzocchi in collaborazione con Jiso
Forzani 


Ramon Panikkar 1918/2010
Panikkar su wikipedia



Chi ha orecchie, intenda (Mt. 13,43)

L’ideogramma giapponese di kiku (ascoltare) è composito, essendo formato
dall’accostamento di tre ideogrammi semplici, precisamente quelli di
orecchio, occhio e cuore. Ciò evidenzia come ascoltare non sia soltanto
capire, né soltanto leggere. Il libro che ho il piacere di presentare, é, come
tutti i libri, un testo scritto; ma andrebbe piuttosto ascoltato e non
semplicemente letto. Essere un vero lettore di un libro autentico è esserne
coautore. All’espressione sanscrita itivuttaka (così fu detto), che apre una
intera raccolta di testi attribuiti a Buddha, la tradizione buddista
giapponese aggiunge, in giapponese antico, nyoze gamon (così udii), come
Jisô Forzani, coautore discreto del libro, con amore e precisione annota
altrove.
Il Vangelo esige l’ascolto, lo Zen richiede l’esperienza. Ascoltare è
sperimentare. La comprensione dei messaggi religiosi del Vangelo e dello
Zen consegue dall’ascoltarli e dal metterli in pratica; quindi avviene solo
in un secondo o terzo tempo. Con questo secondo volume sul Vangelo di
Giovanni, come con gli altri volumi di commento ai Vangeli sinottici,
l’autore (gli autori) porta a compimento un’impresa straordinaria: quella
di dilatare e approfondire il messaggio evangelico, senza tradirlo. Per dei
lettori occidentali, ma anche per quelli non occidentali, una simile lettura
è una vera boccata d’aria fresca. Infatti il più delle volte il nostro entrare
in contatto con le Sacre Scritture cristiane è condizionato da strati di
storia non sempre cristiana, che finiscono per seppellirne il senso
originario sotto parole fin troppo abitudinarie, se non addirittura
riduttive. I dati forniti dalla sociologia evidenziano come le vecchie
cristianità oggi registrino una certa fiacchezza. Leggendo queste pagine,
non sempre facili da capire, vi si coglie il soffio dello Spirito rinnovatore.
È vero: non sono facili da capire! Ma nemmeno il Vangelo è facile da
capire, a meno che lo si metta in pratica.
Sono consapevole della differenza che passa tra una prefazione e
un’introduzione. Questa mia non vuole essere un’introduzione del lettore
ai contenuti profondi del libro; ma si limita piuttosto a una riflessione
teologica, a mo’ di prefazione.
* * *
Ravviso una sfida teologica profonda dietro queste pagine belle e
apparentemente semplici. Con poche eccezioni che sempre ci furono in
tempi e luoghi diversi, la maggior parte dei cristiani ha pensato di
possedere i diritti d'autore dei Vangeli e, quand’anche li usò in ambiente
non-cristiano, lo fece per evangelizzare; la qual cosa, se non viene confusa
con l’indottrinamento, è di per sé un intento del tutto legittimo. L'autore è
un cristiano dichiarato, tuttavia egli ha imparato come ascoltare il
messaggio con altri orecchi, occhi e cuore, diversi da quelli ereditati dalla
cultura nella quale è cresciuto, senza per questo rigettarla. Ci troviamo
qui di fronte ad un esempio vivente di interculturalità, che è un imperativo
religioso dei nostri tempi.
La normale esegesi cristiana dei Vangeli per lo più è consistita in una
interpretazione degli stessi all’interno del contesto storico della cultura
giudeo-ellenico-romana dei tempi in cui essi furono scritti. Per una
corretta ermeneutica di un testo si richiede la conoscenza del suo contesto
e, aggiungo io, quella dell’intento dello scrittore. Sui Vangeli sono stati
scritti migliaia di libri, al punto che è proprio dall'interpretazione della
Bibbia che la moderna scienza ermeneutica trae le sue origini. Si è venuto
formando perfino un corpus di interpretazioni della Scrittura, che ha avuto
l’approvazione ecclesiastica e costituisce quella che è chiamata la
tradizione cristiana, una cornice obbligata per ogni interpretazione
cristiana che voglia essere ortodossa. Mi sta bene! Le Sacre Scritture
cristiane non possono ignorare il corpus della tradizione che le
accompagna. Il Sola Scriptura, piuttosto che un'eresia tipica di un periodo
storico di individualismo moderno, è un'impossibilità, perché una Scrittura
scritta pressoché venti secoli fa non è sola; strati di polvere l’hanno
ricoperta e fasci di luce l’hanno illuminata. Di più, le nostre stesse lenti
hanno uno spessore di due mila anni.
Parimenti la tradizione buddista Zen ha prodotto migliaia di libri, e
annovera un gran numero di scuole e interpretazioni diverse,
caratterizzati da un tocco esistenziale ed esperienziale tutto suo. Così fu
detto! Ma quando ciò che fu detto viene udito, allora è questo e quello. Il
nostro autore ama dire: Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur
(ognuno riceve secondo la capacità che ha di ricevere).
Per la maggior parte del tempo queste due branche della sapienza sono
vissute indisturbate, in splendido e placido isolamento vicendevole. Oggi
questo non è più possibile. Nessuna religione può ignorare chi le vive
accanto. Noi veniamo come rimbalzati l'uno contro l'altro; e ogni
coesistenza comporta i suoi problemi!
Quando, quasi mezzo secolo fa, stavo per accingermi a tradurre una parte
notevole di Sacre Scritture Hindu, alcuni amici cristiani mi misero
sull’avviso che queste non avrebbero dovuto essere usate per la preghiera
cristiana. Evidentemente si possono usare i salmi e gli inni anche di
origine non-cristiana o pagana; ma mai e poi mai i Veda! Alcuni amici
hindu, sull’altro versante, mi fecero osservare che un prete cattolico
romano non poteva pretendere di capire i mantra hindu e, strettamente
parlando, neppure leggerli, a scapito di profanarli. Conoscere una cosa è
entrare dentro quella cosa; per capire una cosa bisogna esserne parte in
qualche maniera. Solo così si può sperimentare la sua vera essenza. È
certamente corretto affermare che senza fede uno non può capire
adeguatamente un testo sacro. Ma la fede non va confusa con credenza. Io
ho introdotto anche la nozione di pisteuma nella fenomenologia religiosa,
in contrapposizione con il noêma della fenomenologia tradizionale.
Pisteuma (da pistis, fede) è ciò che il credente crede; noêma (da nous, mente)
è ciò che un osservatore capisce. La fenomenologia religiosa si incarica di
descrivere ciò che il credente crede e non quello che l'osservatore osserva.
Se l'osservatore, un outsider, si limita a descrive quello che osserva, è certo
che non descrive quello che il credente crede. La risposta che io davo ai
miei critici era che i Veda appartengono all’umanità e che la mia
ermeneutica (come qualsiasi traduzione) era legittima, a patto che io
partecipassi di quello spirito umano che aveva ispirato la sruti, la
rivelazione vedica. Sorprendentemente, a lavoro finito, fui riconosciuto da
molti pandit come un rsi reincarnato, uno dei saggi che per primi
cantarono i Veda. Come avrei potuto altrimenti, dissero, scrivere ciò che
avevo scritto? Dico questo, per sottolineare insieme sia la diversa reazione
dell’altra cultura, come la sfida teologica del libro di p. Luciano e di Jiso.
Sono perfettamente d’accordo che un testo sacro debba essere maneggiato
con rispetto, che una certa disciplina dell’arcano sia giustificata e che un
certo tipo di iniziazione sia richiesto per accostare con frutto qualsiasi
testo sacro, il che assurge a un atto liturgico. La democrazia è un buon
antidoto alla teocrazia, ma ha un effetto collaterale rovinoso se distrugge
ogni senso di gerarchia. Non è il mio ruolo qui quello di prescrivere degli
antidoti. Dobbiamo rispettare la tradizione; eppure le tradizioni viventi
non sono mummie ibernate. Abbiamo bisogno del soffio vitale dello
Spirito; e non di stare attaccati a tradizioni senza vita, solo perché esse
erano considerate vive in un certo passato (cfr. Mt. 15, 2 ss.; 23, 25 ss.
ecc.). Proprio qui sta la sfida teologica di questo libro. L'autore, un uomo
di fede, legge e spiega i Vangeli al di fuori del loro contesto proprio. È ciò
appropriato? La proprietà intellettuale dei Vangeli non appartiene forse alla
specifica tradizione cristiana? Il contesto storico proprio del periodo
temporale in cui essi furono scritti non è essenziale e normativo? Qui
sorgono due domande. Una filosofica: i Vangeli sono solo racconti
intellettuali e storici? L'altra strettamente teologica: il messaggio
evangelico è essenzialmente legato ai figli naturali o a quelli adottivi di
Israele o di Abramo, come dir si voglia?
Senza alcun dubbio i Vangeli intendono trasmettere ben più che la
semplice informazione storica e intellettuale. Le prime parole pubbliche di
Gesù invitavano alla metanoia (conversione), al trascendimento del nous, al
superamento dell’intelletto, anche della struttura mentale del ceppo di
Abramo. Se a Paolo fu ordinato di andare ai gentili, fu solo per
addottrinarli nelle maniere culturali ebraiche o non piuttosto per rendere
possibile anche altrove l'Incarnazione della Parola? L’interpretazione
spirituale è più che legittima. E dicendo spirituale mi riferisco a quello
Spirito che soffia dove, quando e come vuole.
La sfida cui ho fatto cenno all'inizio, deve essere collocata nella situazione
nuova del nostro terzo millennio. Dobbiamo conoscere i segni dei tempi. E
qui trovo l'importanza di questo libro, insieme con altri studi che
cominciano discretamente ad apparire. Mi sia permesso formulare questa
precisa domanda: i Vangeli fanno riferimento soltanto alla figura storica
di un Uomo chiamato Gesù, oppure parlano fin dall’inizio del Cristo Gesù,
che l'arcangelo Gabriele descrisse come Figlio dell’Altissimo e ai pastori
fu annunciato come Salvatore, Unto e Signore? Certo, il Cristo risorto era
il Gesù storico, ma l’argomento-materia dei Vangeli non è la storia di
colui che veniva creduto figlio di Giuseppe, bensì la preistoria e il racconto
del Figlio di Dio che cammina come vero Uomo, in una particolare terra e
in un determinato tempo. La tendenza moderna per il Gesù storico ha
portato in superficie interessanti caratteristiche di quell’ebreo di paese e
taumaturgo mediterraneo; ma ha anche distolto specialmente esegeti e
studiosi da quello che è il cuore dei Vangeli, senza per questo dover cadere
nella superstizione. Alessandro il Grande, Gengis Khan e Napoleone
hanno cambiato anche il corso della storia e, come ebbero a dire gli storici
contemporanei, la faccia della terra. Di quale terra? Sono i Vangeli solo
libri storici? In altre parole, per ragioni storiche e altri motivazioni che la
sociologia della conoscenza ci aiuta a scoprire, la visione del mondo dei
primi secoli cristiani era ferma a una nozione geografica e storica assai
ridotta dell'oikumene: nessuno oggi oserebbe sostenere che i sei giorni di
Mosé erano di ventiquattro ore o che la terra dei Vangeli includesse anche
la Patagonia. Eppure, questa sindrome di un solo mondo, che equivaleva al
nostro mondo, ha persistito fino ai nostri giorni. Durante i primi secoli
cristiani si pensava che l'Impero romano fosse l’intero mondo civilizzato;
la formula urbi et orbi, che più tardi divenne la formula usata dal Romano
Pontefice, era una abituale espressione latina, che rifletteva la mentalità
imperiale: orbis in urbe iacet (il mondo intero giace nella città di Roma), e
potrei moltiplicare gli esempi, su su fino a Copernico e alla moderna
ideologia globale. Quello che accade per lo spazio, similmente accade col
tempo, anche se non è ora il caso di fare disquisizioni sul tempo delle
aspettative escatologiche o della risurrezione. Che la rivelazione termini
con l'ultimo degli Apostoli è stata una credenza teologica cristiana
senz’altro utile, naturalmente, per considerare l’Islam un'eresia e i Bahâ'i
in errore. Ma disquisendo così noi restiamo rinchiusi nella cultura del
ceppo di Abramo. Come possiamo giustificare queste nostre
estrapolazioni? È il tempo escatologico la fine di una temporalità lineare?
Non c’è alcun dubbio che le Sacre Scritture cristiane appartengano al
ceppo culturale abramico, innestato sulla cultura ellenica. C’è da dire qui
che questa inculturazione o mutua fecondazione tra le culture ebraica ed
ellenistica, è un fenomeno precristiano, come testimonia la straordinaria
attività interculturale degli autori dei Settanta nell'Alessandria del III
secolo prima di Cristo, che ha avuto il suo culmine in Filone, pressappoco
contemporaneo di Cristo. Ciò che Filone fece con il giudaismo, divenne
modello per i Padri della Chiesa dei primi secoli. Tuttavia sembra che quel
movimento creativo si sia fermato lì, a parte alcuni cambiamenti
accidentali introdotti dalla cultura europea posteriore. Richiamo questi
fatti perché da ben più di mezzo millennio sembra proprio che l’ascolto dei
Vangeli debba ridursi ad ascoltare gli echi di periodi passati.
È un fatto che al di fuori dell’area ellenico-semitica, la Bibbia ebraica suoni
esotica, estranea e qualche volta incomprensibile, per non dire scandalosa.
I Vangeli greci nella loro semplicità sono più congeniali alle altre culture,
ma la teologia susseguente, costruita su di loro, è incomprensibile al di
fuori degli schemi mediterranei di intelligibilità. Devono forse, gli altri
popoli del mondo subire una circoncisione della mente dopo che la
circoncisione del corpo fu abolita dal I Concilio di Gerusalemme? Credo in
quel sacramento primordiale di Jahve con il suo popolo; ma anche qui non
possiamo fare estrapolazioni. Il Giudaismo sta in piedi da solo e non ha
bisogno della protezione, meno ancora dell'assorbimento da parte di una
religione nuova che la Sinagoga ha rigettato. Ma questo non è il luogo per
parlare di pluralismo. La mia questione non è se i cristiani debbano
impiantare dappertutto i semi del Vangelo, benché mi sorga il sospetto
che per taluni inculturazione non significhi piantare dei semi (simboli), ma
far crescere piante (sistemi concettuali). Nessuna meraviglia che quei semi
(semina Verbi) producano pochi frutti, non perché la terra non è buona, ma
perché il sottosuolo è diverso. Non tutte le piante possono crescere nello
stesso suolo e sotto lo stesso clima. Parlo, invece, di interculturazione, cioè
di fecondazione mutua. La mia questione è se le Sacre Scritture cristiane
hanno qualcosa da dire, in quanto Scrittura religiosa, a popoli che non
sono né figli di Abramo, né nipoti delle culture europee. Dovremmo noi
leggere i Vangeli come documenti culturali interessanti o come messaggi
religiosi (spirituali)? La mia questione riguarda l'identità cristiana.
Vogliono i cristiani mantenere la propria identità, salvaguardando le
differenze (principio di non-contraddizione)? Oppure sottolineando la
auto-comprensione (principio di identità)?
Entrambe le risposte, sì o no, sono sensate e del tutto legittime. Per dare
una risposta dal versante cristiano, per decenni ho invocato un II Concilio
di Gerusalemme, dal momento che io non ho alcuna autorità per decidere
del destino della Chiesa cristiana. Questa si trova di fronte a un bivio:
deve decidere se la comunità cristiana è il resto di Israele, il piccolo gregge;
ovvero se ha il coraggio di seguire l'esempio del I Concilio che ruppe con
il giudaismo ed abolì il patto fondazionale di Jahve con il suo popolo (la
circoncisione), liberando il Cristo kenotico, simbolo universale di
risurrezione, liberazione, realizzazione, salvezza, pienezza, destino della
realtà intera. Uso un simbolismo cristiano molto tradizionale: come
Maria, la Madre di Dio (theotokos), diede la nascita a Gesù e Gesù fece poi
il suo percorso di adulto, allo stesso modo la Chiesa del terzo millennio,
quale icona di Maria, partorisce il Cristo che si incarna nei figli dell’Uomo
in modi che non spetta a noi determinare o persino prevedere. Potrei
insinuare di passaggio che se una Chiesa adulta avesse tagliato il cordone
ombelicale con il giudaismo e avesse riconosciuto il valore indipendente
della Bibbia, senza pretendere di averne un'interpretazione più autorevole
di quella giudaica, l’ondata antisemita non sarebbe mai sorta. L’eredità
giudaica del cristianesimo è un dato di fatto innegabile. Per quanto
concise e poco elaborate possano essere queste mie note, non sono
marginali: mirano a mettere in risalto l'importanza di questo libro e il suo
rischio, se mal compreso.
* * *
Non so se l’autore abbia inteso avventurarsi fin qui; certo è che io trovo in
ciò che scrive una profonda empatia con le questioni che ho sollevato. È
evidente che del contenuto di una prefazione è responsabile chi la scrive.
Tuttavia mi preme sottolineare che la decisiva sfida teologica che fa
capolino nell’opera dell’autore è la stessa che qui io ho appena abbozzato.
Soltanto di un abbozzo si tratta e niente più, come si addice in questo
contesto. In realtà, l’autore che cosa sta facendo? È una domanda
legittima! Non sta forse presentando una figura di Gesù alla luce di una
cultura e religione straniera, in modo che sia significativa tanto per il
buddista come per il cristiano? Così facendo, i Vangeli, come illuminati da
una nuova luce, rivelano aspetti nuovi dell’Uomo Gesù: quindi nuovi
significati per i cristiani e contemporaneamente messaggi che parlano
anche a quelli che si trovano fuori dei confini della Chiesa visibile.
Ma altri, al contrario, si domandano se l’autore non stia forse travisando
l'immagine di Gesù, che dopo tutto non era un guru orientale. Cerca forse,
si chiedono, di smussare gli aspetti acuminati della spiritualità Zen, per
adattarli a un pubblico occidentale? E se togliendo la polvere dei secoli
finisse per buttare via autentici tesori della tradizione cristiana? Serve mai
a qualcosa l’eclettismo? Anche queste sono voci da ascoltare!
Uno dei miei critici mi scrisse una volta che al posto di cristianizzare
l’induismo, che era quello che avrei dovuto fare, stavo induizzando il
cristianesimo, il che era una eresia. Ho gentilmente risposto che il
cristianesimo era vivo grazie alle simbiosi operate con la Grecia, Roma,
l’Europa, la Modernità e simili. Perché dovremmo fermare il vento,
meglio, la brezza dello Spirito? Uno Spirito che fa muovere tutte le cose e
che millenni fa ha spazzato via il sogno umano di una sola lingua
universale, come riferisce l'episodio della torre di Babele narrato nella
Genesi.
I problemi ingigantiscono. Non traviserei forse l'immagine di Napoleone,
se ignorassi la storia europea che lo precede e lo assimilassi a Tipu, il
Sultano dell’India Meridionale, suo contemporaneo? Entrambi erano
grandi guerrieri e personalità straordinarie, entrambi hanno pronunciato
frasi memorabili. Ma se li isolassi dai rispettivi mondi storici favorirei la
comprensione di questi due capi politici? Il Gesù storico è davvero il
giudeo della Palestina occupata di due mila anni fa, così come Hui-neng, il
sesto Patriarca, è un’altra figura storica del VII secolo. Detto ciò, ancora
ci domandiamo: ma lo Zen e i Vangeli sono solo documenti storici?
L’etnocentrismo ebraico è perfettamente comprensibile. Jahve è il Dio di
un popolo, il suo popolo che Egli ha difeso contro i suoi nemici. Ancor più
è comprensibile la tragica grandezza di tale popolo che visse nella
diaspora, senza armi e spesso senza potere, circondato da gentili non
sempre troppo gentili. La sua unica speranza era stata la protezione del
suo Dio. L'inizio della Lettera agli Ebrei esemplifica quanto fosse
drammatico il dilemma dei primi cristiani ebrei. Non c'è dubbio che
secondo la Lettera, i Profeti che Jahve aveva inviato al suo popolo fossero
solo ebrei. Immaginare che l'autore della Lettera avesse potuto sognare
altri profeti, di altre tradizioni, come ho fatto io, non è storicamente
corretto. Ma la Lettera va avanti e parla del Figlio (di Dio) che frantuma i
particolarismi degli Ebrei. Questo Figlio è creatore dei mondi, splendore di
Dio e substrato di tutte le cose per il potere della sua Parola. Da una parte è
scritto che questo Figlio è più grande degli angeli, per cui la sua gloria e
potere, non vi è dubbio, non sono limitati ai figli di Israele. Dall’altra si
può capire anche l’orgoglio presente in tutta la Lettera, per il fatto che
l'apparire storico di quel Figlio – apparizione storica che a sua volta era
stata iniziata dalla figura di un non-ebreo, di Melchisedech - sia
strettamente connesso al popolo ebreo, nonostante le dure requisitorie dei
profeti circa l'infedeltà di quel suo popolo. Jahve avrebbe potuto fare come
un padre che castiga i suoi figli. Ma non è corretto utilizzare le dure
parole dei profeti ebrei contro il popolo di Israele, per denigrarlo dal di
fuori o per difendere l'interpretazione cristiana; così come non è corretto
invocare lo scandalo della Croce per difendere gli insegnamenti cristiani,
come se lo scandalo non fosse tale anche per i cristiani stessi. È chiaro che
non sto parlando della teocrazia secolarizzata del moderno Stato di
Israele.
Insomma, la tensione si avverte fin dall'inizio. La Bibbia, come libro
religioso appartiene indubbiamente alle tribù di Israele; ma le Sacre
Scritture cristiane, fosse anche come semplice libro religioso, non
appartengono a nessuno in particolare. Il Cristianesimo non è una
religione etnica, e questo è il mio punto. Non era ovvio all'inizio. Che
diritto abbiamo di pensare che il messaggio di quell’ebreo trascenda i
confini della Giudea e della Galilea? Non si fece forse discepolo di
Giovanni il Battista per percorrere il sentiero della conversione del cuore?
Ricalco: del cuore. Non fu forse anche lui un giovane rabbino che pensava
di essere stato mandato solamente per il popolo di Israele, per cui ci fu
bisogno dell’amore di una madre per il suo bambino per frantumare quella
sua rigida ortodossia (Mt. 15, 22 ss.)? Non crebbe anche lui in sapienza (Lc.
2, 51)? Non fu forse rigettato dal proprio popolo e crocifisso fuori della
Santa Città, come non a caso i cristiani della prima generazione
sottolineano? E soprattutto, non dovette risuscitare il terzo giorno?
Eppure in Cristo non ci sono né giudei, né greci, né schiavi o liberi, e
neppure uomini o donne (Gal. 3, 28). I Vangeli non sono la storia di Gesù,
l’ebreo; sono invece i racconti di Gesù, il Cristo, cioè il Risorto.
Il Cristianesimo non è una religione del Libro, bensì della Parola. La
parola ha bisogno di essere ascoltata. C'è una certa ironia nel fatto che la
divina Provvidenza abbia disposto che noi di fatto non conosciamo una
sola frase di Gesù. Tommaso d'Aquino sostiene magnificamente che Gesù
non avrebbe dovuto scrivere alcunché, altrimenti il suo messaggio vivente
si sarebbe convertito in mera dottrina (Summa teol. III, q., 42, un. 4).
Sto riportando il discorso a quanto ho detto all'inizio. C'è un profondo e,
oserei dire, per molti un disturbante problema, già nell’intento stesso di
questo libro. È comprensibile che coloro che si sentono investiti della
responsabilità di custodire la purezza della dottrina, non si lascino
convincere facilmente dalle buone intenzioni di quei teologi che vanno
oltre le frontiere stabilite. È una situazione analoga a quella della donna
siro-fenicia: le disquisizioni in cui manca l’amore creano confusione, se
non danno. Voglio dire che non dobbiamo accostarci al problema
dialetticamente, cioè dottrinalmente. Le parole di vita eterna sono concesse
gratuitamente a quelli che ne hanno sete vera. Per i dotti e i ricchi è più
difficile. Noi non possiamo, naturalmente, né ridurre il cristianesimo a una
dottrina, né eliminare dalle Sacre Scritture il loro contenuto mistico,
senza con ciò trascurare la stessa dottrina. L’unico messaggio che il Cristo
risorto instilla in noi è quello della pace e del non avere paura.
Lo dico in maniera più accademica. Stiamo assistendo alla crisi del mito
che ha prevalso in occidente: il mito che una sola cultura sia sufficiente per
abbracciare l’intera gamma dell'esperienza umana. In base a tale mito re,
imperatori, papi, presidenti, governi ed eserciti, in buona fede, hanno
fomentato il progetto di unificazione politica, religiosa o economica del
mondo. Un nome passato del progetto è stato colonialismo; ora ha preso
altri nomi: globalizzazione, etiche globali, scienza universale e simili. Ora,
il mito è in crisi, se non in procinto di crollare.
* * *
Non pretendo che l’autore insegua queste tematiche, una a una, per
risolverle. Tuttavia deve sapere che il suo lavoro è senz’altro importante.
Esso rappresenta un passo nuovo nella auto-comprensione cristiana e apre
scenari nuovi per un ecumenismo veramente ecumenico per il terzo
millennio cristiano. Nonostante le provocazioni di questa mia prefazione,
l’autore non si lascia frastornare dalle problematiche, ma continua sereno
il suo lavoro. Gli dovremmo essere grati.
* * *
Una prefazione non è una introduzione. Di fatto, con queste
considerazioni non ho introdotto il lettore al libro; non ho sottolineato le
inaspettate ricchezze che l’esegesi ivi contenuta può portare in superficie;
né ho sottolineato che senza esperienza personale la lettera uccide. Il lettore
scoprirà tutto questo da solo.
Questa mia prefazione in tono teologico voleva solo mettere in rilievo
l'importanza teologica della ricerca che ha accompagnato questo libro e
gli altri dell’autore. L'idea che vi soggiace è che il messaggio religioso di
Cristo non appartiene ad alcun particolare gruppo umano. Quindi lo
stesso significato del nostro essere cristiani è sempre aperto a nuovi raggi
di luce.






© Tora Kan Dōjō



















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