martedì 9 giugno 2020

Sotto il pino


di Sodo Yokoyama Roshi
traduzione di M. Yushin Marassi

Lettera al signor Masanori Yuno, 
vice presidente della federazione di Kendô di Tôkyô. 
Komoro, 28 Febbraio 1977
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Accanto alla vecchia pietra
sotto a questo pino la mia pura terra.
Questa mia pura terra sotto il pino: 
la Pura Terra.

Sodo Yokoyama, il monaco del flauto d’erba

Sodo Yokoyama Roshi
Sawaki Rôshi, mia guida spirituale per molti anni, parlando di se stesso soleva dire:
Io sono l’essere eternamente illuso. Nessuno è così illuso quanto me. Io ho la palma d’oro dell’illusione. Questo mi è perfettamente chiaro durante Zazen."

Che strano fenomeno, lo Zazen! Sembra proprio che idee e fantasie di ogni genere, pensieri di poco conto, tutte le illusioni da cui è composta la natura delle persone ordinarie, durante lo Zazen abbiano l’irrinunciabile tentazione di nascere ed affiorare. Così pure, di conseguenza, nasce il desiderio di sbarazzarci di questi pensieri: un desiderio imperioso al quale si uniformano i nostri sforzi. Queste sensazioni, queste esperienze mentali non esistono per coloro i quali non praticano Zazen.

Come mai, non appena ci sediamo sullo zafu, raddrizziamo la schiena e ci dedichiamo allo Zazen, i pensieri si avvicendano uno dopo l’altro, senza posa? Il motivo, che possiamo comprendere nel fare Zazen, risiede nel fatto che ciascuno di noi, principe o mendicante che sia, è una persona ordinaria. La tentazione di allontanare quel tipo di pensieri perché le illusioni interferiscono sconsideratamente con il nostro e l’altrui benessere, è anch’essa una pulsione nata all’interno del nostro Zazen. In modo improprio noi chiamiamo Buddha questo Zazen che ci guida nel nostro cammino.

Secondo il corretto insegnamento, la semplice consapevolezza di essere degli illusi, consapevolezza che sorge durante la pratica dello Zazen, in realtà fa di noi dei risvegliati, dei Buddha. E’ lo Zazen ad insegnarci che anche noi siamo nella confusione e nell’ignoranza liberandoci, così, dall’inganno. Proprio nel momento in cui pratichiamo Zazen ed osserviamo con attenzione tutte le idee, i pensieri che vengono a galla, ci rendiamo conto di quanto siamo ordinari, normali e di come non vi sia nulla di cui essere orgogliosi o di cui vantarci: null’altro da fare che rimanere quietamente lontani dalla ribalta. 
In definitiva, questo è tutto ciò che siamo.

Il Satori consiste nel risvegliarci alla realtà della nostra illusione. Ecco allora, per quanto piccolo, il desiderio di arrestare quei movimenti autofuorvianti. Questo è il modo in cui le persone ordinarie vengono salvate dallo Zazen. Così, aldilà di ogni dubbio, realizziamo la nostra ordinarietà nella pratica dello Zazen ed ogni allontanarsi da Zazen, dal Buddha, darà corso all’incapacità di venire a capo delle nostre idee illusorie, perderemo l’orientamento, ci troveremo fuori strada. Possiamo dire che questo mondo è traviato perché non è in grado di occuparsi delle proprie illusioni. Traviarsi, smarrirsi significa trasmigrare nei sei mondi (infernale, degli spiriti insaziabili, animale, degli spiriti combattivi, umano, celeste). 
Tutti i problemi del mondo (politici, economici ecc.) nascono in situazioni in cui è assente la consapevolezza della nostra ordinarietà .

Sodo Yokoyama Roshi, Kodo Sawaki Roshi
Sawaki Rôshi, mio defunto Maestro, soleva dire: 
Coloro i quali non sono coscienti della loro ordinarietà, da un punto di vista religioso sono sciocchi in modo addirittura comico."
Il diavolo… cioè illusione, quando è vista/o come diavolo non può più esibire i suoi poteri e scompare spontaneamente.

Shakyamuni si risvegliò, aldilà di ogni dubbio, alla realtà di essere una persona ordinaria: per questo divenne un Buddha ed iniziò a vivere la vita di un Buddha. 
Quando realizziamo la nostra ordinarietà siamo un Buddha e quando siamo un Buddha non importa quante fantasie o pensieri irrilevanti sorgano: non sono comunque un impedimento per un Buddha, per cui non costituiscono più un ostacolo. Le illusioni che non ci ostacolano più sono dette sogni. La Via del Buddha, la via della pace, è trasformare le fantasie in sogni.

Sebbene nella scuola Zen si insegni l’unità, all’interno di questa unità vi sono molti caratteri (differenze). Zen è la vita universale. E’ anche definito “il volto del Sé originale”. 
Sawaki Rôshi, riguardo al volto del Sé originale, ossia riguardo allo Zen, ha detto: 
"Non c’è "illusione nel passato" e "illuminazione nel presente". 
"Questo è il volto del proprio sé originale"
Il Satori, il risveglio, non implica necessariamente l’assenza di illusioni. Questo è il motivo per cui Sawaki Rôshi diceva: 
"Va bene non realizzare l’illuminazione, il risveglio; solamente badate bene a non smarrirvi [nelle illusioni, badate bene a non deviare dallo zazen. N. d. tr.]. Se non correte di qua e di là dietro le illusioni: ecco il volto originario. Rimanete come siete, tutto di voi, siate voi stessi così come siete."

Badare a non smarrirsi è fare dell’illusione un sogno. Non importa quanti pensieri illusori voi abbiate, fintanto che non vi fate catturare. Questo è il motivo per cui nella scuola Zen è detto: "Non c’era illusione nel passato né Satori ora." In altre parole, nello Zazen non vi è illusione, né risveglio, né persone ordinarie, né Buddha. E’ per questa ragione - sin dal principio non essendoci nello Zazen né illusione né risveglio né santi né peccatori - che vi è semplicemente lo star seduti. Poiché non vi era illusione nel passato né illuminazione nel presente, non vi è alcun bisogno di cercare di diventare Buddha e neppure vi è alcun inferno nel quale si possa cadere. Per questo vi sono espressioni categoriche come: "Anche se precipitassi nell’inferno, non importa."

Sekito Kisen
Il Patriarca Sekito Kisen espresse in questo modo il senso di "Shikantaza" (semplicemente star seduto): 
"Anche se, per esempio, cadessi nelle tenebre per l’eternità, giuro che non cercherei mai di ottenere la salvezza dei santi."

Vi sono Buddha e inferno nello stare semplicemente seduti? Vi è solo lo star seduti attenti e concentrati. Sekito si è espresso in modo veramente potente. Nell’insegnamento buddista sedersi con questa forza di spirito è detto "retto sforzo". 
Dôgen descrive questo "retto sforzo" con: “Nove per nove ottantadue.” Normalmente diciamo “nove per nove ottantuno”, tuttavia uno sforzo normale, ovvero uno sforzo distratto o negligente, non è sufficiente per trasformare le illusioni in sogni. Se fin dall’inizio vi applicate in uno sforzo sufficiente a far sì che nove per nove sia ottantadue, non sarete preda dei vostri pensieri, per quanti possano essere.

In un’altra occasione Sekito si espresse in modo più delicato e poetico. Riferendosi allo stesso insegnamento disse:
 "Il vasto cielo (Zazen) non ostacola le bianche nuvole fluttuanti (pensieri illusori)".

A sua volta Dôgen disse: 
Tra le fronde dei pini il vento [il flusso dei pensieri, delle convinzioni, delle avversioni. N. d. tr.] fischia invano per le orecchie di un sordo (colui che pratica Zazen)”. 
Sebbene, per le orecchie di un sordo (ottantadue), il vento soffi invano tra i pini, tuttavia continua a soffiare (sebbene le illusioni siano infinite, faccio voto di liberarmi da tutte). Proprio perché in noi mai cessano le illusioni, così pure lo Zazen non ha fine. 
E se noi ci risolviamo, ci impegniamo a praticare Zazen non solo in questa vita ma in tutte le innumerevoli vite a venire, allora percepiamo un maestoso sentimento di pace.

Nell’insegnamento buddista, Pratica ed Illuminazione sono un tutt’uno. 
Una mente che discerne solo tramite la conoscenza non può essere detta illuminata. 
Vi è un sentiero, un passaggio, per il quale il progredire verrà naturalmente con la continuità della Pratica dello Zazen.

Dogen Zenji
Nel componimento chiamato Zuimonki, Dôgen non fa menzione di alcun tipo di autoperfezionamento naturale ma dice che attraverso la costanza dello Zazen vi sarà un naturale miglioramento.

Vi è un poema che illustra l’insegnamento 
"Pratica e Illuminazione sono un tutt’Uno": 

"Raccogli un poco d’acqua e avrai la luna nelle tue mani. 
Giocherella con un fiore e sarai avvolto dalla sua fragranza."

Anche nella pratica del Kendô non si insegna ad impegnarsi solo nella vita presente ma, piuttosto, a decidere risolutamente di praticare per tutte le innumerevoli vite future, e questo dona un maestoso sentimento di pace.

Ancora, a proposito di Shikantaza, Zazen, stare semplicemente seduti: 
"Zazen: una persona comune, così com’è, diventando un Buddha."

Anche qui si dice che diventiamo un Buddha nella misura in cui progrediamo in armonia con noi stessi, sedendoci con energia. 
Se non fosse così, anche Zazen sarebbe una pratica di mortificazione ascetica. 
Lo Zazen di "diventando un Buddha" è detto l’insegnamento dello Zazen della quiete nella pace.

Praticare nella concentrazione, senza distrazioni è quiete in pace.

Dal momento che Zazen è diventare Buddha nelle proprie condizioni ordinarie, così come siete, non è semplicemente il Buddha che è solamente il Buddha. E dal momento che è una persona comune a diventare Buddha, non si tratta solamente di una persona comune, ordinaria. Sebbene sia Buddha, non è Buddha. 
Questo insegnamento è riassunto nell’espressione: non uno, non due
Oppure, più semplicemente, è l’insegnamento del "non due". 
La Via di Buddha è l’insegnamento del non due.

Se parliamo del kendô in termini di buddismo, possiamo dire che il kendô non è per uno né per due. Vi è solo un unico sforzo che è quiete nella pace.
Se il kendô non è per uno né per due, per chi (o per che cosa) è? 
E’ lo stesso per ciò che riguarda lo Zazen. Zazen non è né per i Buddha né per le persone ordinarie. Per che cosa (o per chi) è lo Zazen? Non di meno vi è semplicemente Zazen. 
E’ da questo punto di vista che possiamo comprendere Shikantaza
lo Zazen che è "star semplicemente seduti". 
In termini buddisti possiamo dire che anche il kendô è shikankendô: solamente, semplicemente non altro che kendô.


Il mio insegnante soleva dire: "Non risparmiate alcuno sforzo. Di solito, le persone mantengono qualche riserva quando compiono uno sforzo o un’impresa. Se trattenete in questo modo la vostra disponibilità qualsiasi cosa facciate i vostri sforzi saranno di poco conto. Mantenete questo tipo di riserve ogni volta che dite: "Non è giusto, non mi piace, non ce la posso fare".

Quando dite: "Va bene! Ci voglio proprio provare!" ed esercitate lo sforzo necessario affinché "nove per nove ottantadue", non vi è nulla che non possiate fare. 
Questo è possibile perché noi esseri umani, signori di tutta la creazione, siamo in grado di porre in essere sforzi che sono al di là delle nostre capacità normali. Nei termini dell’insegnamento buddista possiamo dire che il segreto che svela se una persona ha risvegliato dentro di sé la Mente di Buddha è la sua volontà di farlo.

Una sera, nel monastero di Shôrin,
al limitare del bosco coperto di neve
il freddo acuto che penetra nelle ossa, cosa rara tra gli uomini
si tagliò un braccio e raggiunse l’intima essenza.
Solo coloro che sanno,
avendo messo da parte il proprio corpo, sono ammessi.

Bodhidharma viaggiò dall’India alla Cina. Siccome l’India si trova ad Ovest della Cina, quell’avvenimento è detto: "Il viaggio dall’Ovest". Dopo aver viaggiato dall’Ovest, si stabilì in un’ala del monastero Shôrin. Dove si sedette con il volto verso il muro. 
Eka Daishi fu il primo a praticare sotto la direzione di Bodhidharma. 
Bodhidharma fu il primo patriarca cinese e Eka il secondo.

Nevicava la sera in cui, per la prima volta, il secondo patriarca si recò a Shôrin per incontrare Bodhidharma. Non fu ammesso al suo cospetto e tutto quello che poté fare fu starsene in piedi, fuori, nella neve. Si dice che venne la sera e che la neve avesse raggiunto l’altezza del suo petto prima che gli venisse rivolta la parola. In risposta alla replica di Eka che affermava di essere venuto in cerca del Dharma, il fondatore disse:
"Non è una questione semplice".
Il secondo Patriarca che aveva ben compreso ciò, come prova della sua determinazione si tagliò un braccio e lo offrì a Bodhidharma.
Il quale disse: "In questo caso…" e lo accettò come discepolo.
Questo è il racconto di come il secondo Patriarca giunse alla realizzazione del Dharma, del vero insegnamento. 
Sebbene si dica "si tagliò un braccio" credo si tratti di un’espressione simbolica per "solo coloro che sanno, avendo messo da parte il proprio corpo, sono ammessi ".

Mettere da parte il proprio corpo significa mettere in atto uno sforzo al di là delle proprie normali capacità. Dôgen, riferendosi a questo aspetto, dice “gettare via il corpo”, così come nove per nove diventa ottantadue. Nove per nove è ottantuno, ma noi pratichiamo la Via con l’energia che occorre per far sì che sia ottantadue. E’ l’energia che in termini buddisti è chiamata retto sforzo (impegno).

Nel buddismo l’impegno, lo sforzo, non è limitato a questa vita. Comprende la risoluzione di praticare per innumerevoli nascite e morti, per l’eternità. Anch’io devo avere la risolutezza di praticare in questo modo. Se sarò in grado di assumere questa risolutezza, un senso di pace trascendente sarà il risultato. Proprio perché questa mente in pace e il Satori, la comprensione, sono Uno, sono identici, non è questione di comprendere qualche cosa, di essere illuminati o risvegliati a qualche cosa, piuttosto è richiesta la risolutezza di praticare la Via di Buddha con il giusto impegno – ricavando ottantadue da nove per nove – per l’eternità. 
Se sarò in grado di vivere con questa saldezza dentro di me, io stesso sarò eterno. 
Ecco quindi che il Satori, la mente e il cuore della pace, è diventare l’eternità: l’eternità universale senza limiti.

Quando nove per nove è ottantuno vi è una restrizione. Ciò che ha restrizioni è limitato. 
Nel kendô, quando si dice “se raggiungi quel livello sarai al top", ecco questo è kendô limitato. Così pure, se qualcuno si sente soddisfatto perché in un grande torneo è risultato essere il numero uno in Giappone, per quanto questo possa sembrare magnifico, dopo tutto non è che autolimitarsi. Per liberare il kendô dai suoi limiti dobbiamo praticarlo non solo per questa vita ma per l’eternità. Se faremo ciò, il kendô, come il buddismo senza limiti, perderà i propri limiti. Sarà kendô illimitato. Anche un bambino che impugni una spada di bambù per la prima volta sta praticando il kendô privo di limiti.

Poiché Zazen è Zazen eterno e senza limiti, è così anche per chi si sieda per la prima volta. Non è una Pratica limitata ad un periodo che noi decidiamo con noi stessi pensando: 
"E’ necessario sedersi per tot anni e così farò". 
L’unico Satori veramente effettivo, per così dire, è Zazen eterno e senza limiti praticato con costanza ad ogni istante per sempre. Tutti gli altri ottenimenti e tutte le altre apparenze che puzzano di Satori non valgono nulla. Quando qualcuno studia il buddismo perché vuole ottenere questo e quello, o vuole diventare così e cosà, stabilisce da sè il proprio recinto. Questo non è il "senza limiti".

Spero sinceramente di essere pronto a compiere lo sforzo necessario e ad avere la risolutezza di praticare la Via del Buddha. 



Una Via in cui bisogna essere pronti a praticare per innumerevoli rinascite e uno sforzo che non si limiti a realizzare che nove per nove è ottantuno ma, piuttosto, a raggiungere l’ottantadue privo di limiti e di restrizioni.

Se volessimo porre una condizione limite a questa Pratica, dovrebbe essere la risoluzione di proseguirla per l’eternità. 
Dal momento che questa è la condizione della Pratica del vero Zazen, che cosa ne pensa di prendere questa risolutezza come “limite” per la pratica del kendô?

Questo è l’illimitante limite.


Articolo tratto dal Notiziario informativo dell' Honbu Dōjō IOGKF Italia Tora Kan
Anno VIII N° 28 Primavera/Estate 2003
© Tora Kan Dōjō
















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