domenica 30 dicembre 2018

Coltivare noi stessi


Tratto dalla rivista “Judo”, Giugno 1915. Pubblicato in ‘Jigoro Kano - Fondamenti del Judo’ 1997 Luni Editrice.
L'obiettivo ultimo della disciplina Judo è di raggiungere il perfezionamento di sé nel contributo alla società, e anche chi non pratica Judo approverà questo principio e non troverà da obiettare sul fatto che il Kodokan persegua questo fine.
L'argomento di oggi verterà appunto su questo tema, in particolare sulla tecnica o metodologia con cui raggiungere un perfetto equilibrio in se stessi, argomento di grande interesse per tutti, oltre che per coloro che hanno intrapreso il cammino del Judo. Il primo passo nella formazione della persona è ovviamente affidato all'educazione del padre e della madre, e successivamente a quella di Maestri e anziani. Ma al risveglio della consapevolezza esso viene corroborato dalla volontà, cioè dalla determinazione di migliorare la propria personalità, Punto di partenza per immettersi nella coltivazione morale e spirituale.
Tuttavia la volontà o lo sforzo non bastano se non sappiamo indirizzarli in pratica a realizzare il nostro scopo nel modo desiderato. E come si può indirizzare a esso lo sforzo spirituale e fisico? Esamineremo la questione analiticamente.
Il primo argomento è la coltivazione intellettuale.
Molti pensano che l'educazione culturale appartenga soltanto alla competenza della scuola, ma si può acquistare cultura anche senza frequentarla regolarmente.
Un modo di apprendere consiste nell'acquisire nozioni parlando e ragionando poi sull'argomento: accumuliamo conoscenza perfino attraverso la lettura di due righe del giornale, allenandoci nel contempo a imparare nuovi ideogrammi. E nello scrivere, soprattutto se si è costretti a esprimere opinioni o pensieri, si deve usare il vocabolario, domandare a qualcuno, inventare la locuzione: tutti esercizi che perfezionano la capacità di pensare e di riflettere.
E’ un allenamento anche quando, pensando ai giorni passati o alla giornata appena trascorsa, esaminiamo se le cose sono state fatte bene o male, Ripromettendoci quindi di continuarle o di non ripeterle, secondo i risultati ottenuti, E ancora, quando ci troviamo di fronte a qualche difficoltà nelle amicizie e nel lavoro, con un amico, un collega, il superiore, e perfino nei problemi di conduzione di un'impresa, il fatto di raziocinare o argomentare sul comportamento o la decisione da prendere ci porta, oltre alle cognizioni generali, una conoscenza reale del mondo.
Questa è cultura nel senso vivo e vero della definizione stessa.
Non è un caso se molte persone, prive della più rudimentale preparazione sono riuscite ad acquisire una vera cultura; esse, a volte davvero di gran valore, hanno imparato a leggere e a ragionare nel corso del vivere quotidiano, e il fatto che la loro conoscenza sia frutto di volontà e di necessità rende questo sapere del tutto utile, senza sovrastrutture superflue, e il modo di ragionare è accurato e appropriato, essendo sperimentato su fatti pratici e reali. Sul piano pratico a volte un laureato è inferiore a chi si è allenato da solo nella vita, esempio eloquente per comprendere che la vera educazione non è quella ricevuta passivamente, quanto facendo uso della volontà, ovviamente coadiuvata da costanti allenamento ed esercitazione. Con questo naturalmente non voglio affermare l'inutilità del sistema scolastico, dico semplicemente che anche senza un diploma l'uomo può altrettanto acquistare una personalità di valore.
L'educazione scolastica ci insegna la costanza e la concentrazione -per questo è bene che tutti possano accedervi - e dal punto di vista intellettuale istruisce con nozioni utili e addestra la mente e la capacità di osservazione. Per mettere a frutto tutto questo, il metodo assume un'importanza determinante
A esempio mi pare indispensabile una considerazione sull'opportunità e l'utilità della scelta dei libri e dei sussidi didattici, prima di iniziarne l'uso.
Nel caso della lettura di un quotidiano, valutiamo ugualmente se vale la pena di spendere tempo rinunciando a un altro tipo di lettura; se riteniamo utile farlo è opportuno interrogarsi sulla validità di certi articoli o argomenti seguendo la dottrina del «miglior impiego della mente e del corpo».
La stessa lettura deve essere fatta a modo: scorrere precipitosamente non porta beneficio, bisogna anzitutto sforzarsi di comprendere, confrontando ciò che si legge con le nozioni e le esperienze acquisite, ogni volta in modo accurato e diligente, che è il segreto di una lettura efficace. A ogni modo, sia nella vita scolastica che in quella del lavoro, il metodo esposto nell'insegnamento Judo permette di ottenere vantaggi impiegando minore energia, cosicché Un’intelligenza comune può anche eccellere su una non comune e anche senza istruzione scolastica si può acquisire una posizione superiore a chi dispone di un diploma; del resto è in questo che consiste il significato di addestramento intellettuale e mentale.
Se si vuole aver successo nella scuola, nel lavoro e nella vita in generale, un altro elemento importante è la «solerzia» e anch'essa ha bisogno di essere coltivata, come tutto. Sarebbe auspicabile che fosse data, fin da bambini l'abitudine a essere diligenti su ogni cosa, ma se sfortunatamente non abbiamo avuto questo bene, basta volerlo.
La prima cosa da fare è meditare sulla preziosità del tempo, sullo spreco dı energia, e rendersi consapevolmente conto di quanto siano grandi le sue conseguenze. Una volta acquisita la consapevolezza di come sia impagabile il tempo e quanto sia riprovevole sprecare energia, l'uomo diventa di solito insofferente del trascorrere inutilmente anche un solo attimo. Naturalmente lavorare senza sosta non ci è possibile: abbiamo bisogno di nutrirci e riposarci, ma una cosa è il riposo e un'altra è sprecare tempo, e lo stesso riposo deve rispondere al risultato matematico della dottrina «miglior impiego della mente e del corpo».
Una volta che abbiamo deciso di non sprecare un attimo, il secondo passo consiste nell'utilizzare le piccole frazioni del tempo impiegandole per qualche lavoro o studio: questo, si dirà, richiede, oltre la fermezza dell'agire, anche l'intelletto, insufficiente tuttavia se non viene sorretto dalla forza di volontà, che è l'elemento primario per compiere ciò che abbiamo in mente, ciò che sentiamo di dover fare per esigenze anche personali; questo è l'aspetto che richiede il maggiore sforzo nell'applicare l'insegnamento ricevuto, banco di prova, a esempio, per la comprensione del randori.
Un altro addestramento che non può essere trascurato consiste nel coltivare attraverso la volontà la capacità di autocontrollo, esercizio utile per ottenere numerosi risultati vantaggiosi; del resto anche la solerzia, in molti casi, viene allenata con l'aiuto di questa forza e proprio per questo motivo ogni essere umano, a prescindere dall'età e dalla posizione sociale, dovrebbe applicarsi alla disciplina di dominare i desideri e frenare le emozioni.
L'errore più frequente è di manifestare nelle parole e negli atti la nostra ira senza riflessione, mentre una calma considerazione ci potrebbe salvare dai disagi, soprattutto se la ragione è dalla nostra parte; perfino nel caso contrario la politica migliore è quella di non esprimere rabbia, per il bene di tutti.
Lo spirito di autocontrollo sarà applicato anche per correggere i vizi abituali: spendere inutilmente il denaro, essere disordinati, trascurare la salute; cose di cui è difficile liberarsi se non si ha una ferma determinazione. Questa capacità di dominare se stessi dipende, in ultima analisi, dalla forza di volontà, che nel Judo si acquisisce automaticamente durante il periodo d'apprendimento.
A questo punto vorrei sottolineare all'attenzione dei miei discepoli che lo scopo dell'esercizio Judo sta nell'acquisizione della padronanza dei movimenti fisici e del proprio animo, e quindi dovete essere voi prima degli altri a saperlo applicare quotidianamente, mettendolo in pratica senza indugio nel caso di atteggiamenti positivi e controllandovi con determinazione nei casi contrari. A ogni modo sono certo che anche coloro che non praticano il Judo sapranno trarre notevole risultato da questo principio purché siano solleciti ad applicarlo nella vita. L'ultimo tema è la coltivazione del corpo, a cui l'addestramento del Judo contribuisce con notevole aiuto e facilitazione. Ho usato il termine «shuyō» (coltivazione) invece di quello più comune di «tanren» (rinforzamento) perché,  mentre con quest'ultimo si designa (riferendosi all'addestramento fisico) un irrobustimento ottenuto sottoponendosi al caldo, al freddo o alla fatica, in aggiunta all'accezione di «tanren» il termine <«shuyō» vuole intendere lo sviluppo della tendenza naturale di ogni persona, fortificandone con esercizi appropriati i punti deboli, ma senza violentarli; come pure correggere la postura, al fine di conquistare un equilibrio generale del corpo. Naturalmente questo è un risultato che si può ottenere anche con altri metodi, ma il Judo offre molteplici vantaggi e convenienze, di cui farò un esempio. Parlando strettamente dal punto di vista ginnico - poiché c'è anche L’allenamento concepito nello spirito tanren – il nostro metodo non somiglia ad altri consueti e più diffusi, a quel modo meccanico di fare ginnastica seguendo collettivamente I comandi, né assomiglia a quell'altro modo di far ripetere individualmente i movimenti servendosi di qualche attrezzo, perché la metodologia del Judo offre, in sintesi, una libertà che permette a ognuno di rinforzare i propri punti strategici secondo il volere e la necessità, rispettando la personalità nella scelta dei movimenti.
Da ciò che ho esposto ognuno comprenderà quanto siano grandi le conquiste e i risultati che si possono ottenere coltivando lo spirito e il corpo, sicché una mente anche mediocre può acquisire una posizione di rispetto quando una mente eccelsa, ma incurante del proprio ammaestramento, finisce tra le persone inferiori alla media, episodio fra l'altro assai frequente.
Allora ognuno converrà su quanto sia efficace l'insegnamento del Judo per coltivare la personalità adoperando l'energia nel modo più efficace, sviluppando la forza di volontà nel corso dell'allenamento stesso, costituendo anche un'originale disciplina ginnica di notevole efficacia.


mercoledì 26 dicembre 2018

La Gratitudine



Quando osservate il nostro mondo da una prospettiva cosi’ limitata che richiede accettazione e comprensione, la Gratitudine diventa palesemente ovvia.

Se ne conclude dunque che se avete del cibo nel frigorifero, vestiti addosso, un tetto sopra la testa un letto su cui dormire, siete piu’ ricchi del 75% del mondo. Solo questo.
Non pensate che richieda un po’ di gratitudine?

Se vi siete svegliati questa mattina con più salute che malattia.
Se avete dei soldi in banca, qualsiasi cifra o anche solo soldi nelle vostre tasche e qualche spicciolo da qualche parte nelle vostra vita, fate parte dell’8% di persone più ricche mondo.
Il 92% delle persone non ha neanche questo.
Se riuscite ad andare in chiesa senza paura… Paura di essere arrestati, torturati o uccisi,
Siete più benedetti di 3 miliardi di persone al mondo.

Se non avete mai fatto esperienza del periodo di una battaglia o della solitudine, della prigionia, dell’agonia della tortura o dei dolori della fame, state meglio di 500 milioni di persone al mondo oggi.
Se i vostri genitori sono ancora vivi, siete davvero rari, anche negli Stati Uniti.

Quindi, se avete l’opportunità di pensare come decidete di pensare, di pregare chi decidete di pregare e avete qualche spicciolo in tasca e la vostra salute e qualcuno vi vuole bene allora avete un mondo di cui essere grati.
Fare tesoro della Nostra Divinità significa essere in un costante stato di apprezzamento cercando ogni occasione per essere gioiosi, per esser felici e in uno stato di gratitudine.

Wayne Dyer


martedì 25 dicembre 2018

Vita-Morte giocare a nascondino




Questo corpo non sono io
Non sono limitato da questo corpo
Sono la vita senza limiti
Non sono mai nato
e non sono mai morto.
Contempla l'immenso oceano o il cielo pieno di stelle,
manifestazioni della mia vera mente, cuore meraviglioso.
Fin da prima dell'esistenza del tempo sono stato libero.
Nascere e morire sono solo le porte attraverso le quali passiamo
Soglie sacre nel nostro viaggio.
Essere nati e morire sono un gioco,
il gioco del nascondino.
Ecco perché, ridi con me
dammi la tua mano
diciamo addio, salutiamo
per incontrarci di nuovo presto.
Siamo oggi
Ci rivedremo domani.
Ci incontreremo all'origine di ogni momento.
Ci incontreremo in tutte le forme di vita.

Thich Nhat Hanh


© Tora Kan Dōjō






lunedì 24 dicembre 2018

Impara il linguaggio della vita





''Perché c'è tanta violenza in questo mondo? Perché la maggior parte della gente è piena di violenza dentro di sé. Perché c'è tanta ostilità, tanta guerra nel mondo? Perché la gente è pronta a uccidere o a farsi uccidere; perché per secoli ci hanno insegnato a morire... non ci hanno insegnato a vivere. Vi hanno chiesto di morire per la patria, di morire per la bandiera, per la religione, per la chiesa, per la moschea, per il tempio. Ma nessuno vi ha mai chiesto di vivere. Vi chiedono di morire per un pezzo di stoffa che chiamano bandiera, per questo straccio vogliono che sacrifichiate la vita che è un dono di Dio.
Vi chiedono di morire per dei confini nazionali stabiliti da politicanti impazziti... ma non vi permettono di vivere in questo enorme tempio di Dio, illuminato dalle stelle del cielo e dalla luna e dal sole, che si riempie di milioni di fiori quando è primavera.
Il mio messaggio è:
Vi hanno insegnato il linguaggio della morte: la politica parla il linguaggio della morte. Dice: uccidi e fatti uccidere. Io insegno la ribellione; io dico: non fatevi uccidere e non uccidete nessuno... vivete! E fate vivere gli altri. Perché non basta vivere, bisogna anche fare qualcosa per far vivere gli altri. Questi pochi giorni che abbiamo sono preziosi, sono un dono di Dio: non sprecateli.
Imparate invece il linguaggio della vita e abbandonate il linguaggio della morte, vivete in modo totale e vivete con tutta la vostra intensità, vivete imparando il linguaggio della vita, la vostra vita deve diventare una fiamma. Anche se vivete un solo momento, quel momento deve essere di una intensità tale da riuscire a divenire tutta l’eternità.
Se il mondo impara a intonare la canzone della vita, a suonare il flauto dell'esistenza, sarà una rivoluzione, e una rivoluzione senza precedenti. E questa rivoluzione non può venire tradita, perché non è un reagire contro, non avviene in reazione a qualcosa. Noi non combattiamo contro nessuno, stiamo semplicemente dissipando il buio dentro di noi, siamo impegnati nel compito di rimuovere i sassi ed i massi, in modo che il fiume possa ricominciare a scorrere, perché l'oceano non è lontano... Il fiume che smette di scorrere, arriverà certamente sull'oceano.''

OSHO, 1979


© Tora Kan Dōjō







domenica 23 dicembre 2018

Karate e Gōjū, origine dei nomi


Il termine te (de) stava ad indicare, all’inizio del diciannovesimo secolo, l’arte di combattimento a mani nude indigena dell’arcipelago delle Ryu Kyu. Il termine te, pronunciato ti nel dialetto dell’arcipelago, significa “mano” (mani).

L’influenza delle arti di combattimento cinesi, per mezzo di maestri cinesi presenti ad Okinawa o di okinawensi che avevano praticato in Cina, portò nel corso degli anni ad identificare il te con il nome tōde, dove il kanji (1)  rappresentava la dinastia cinese Tang (618-907) e veniva utilizzato per indicare la Cina in senso lato. Tōde assumeva quindi il significato di mano cinese (mani cinesi). Il termine tō può essere pronunciato, con il metodo Kun, kara.

Fino all’inizio degli anni trenta tōde è stato sicuramente il termine più usato per identificare l’arte di combattimento che oggigiorno è chiamata karate: sono concordi su questo punto sia le testimonianze orali sia quelle scritte. Per esempio, nel 1908, Anko Itosu (1832-1915), nello scritto “tōde junkun” (dieci precetti sul karate), utilizza il termine tōde – mano cinese. I libri scritti a Tokyo nel 1922 e nel 1925 da Gichin Funakoshi (1868-1957), allievo anche di Itosu, utilizzano anche loro il termine tōde per identificare l’arte di combattimento dell’isola d’Okinawa. La prima dimostrazione di karate al Butokusai (il festival organizzato ogni anno dal Butokukai, l’organizzazione ufficiale, cui capo vi era un membro della famiglia imperiale giapponese, che raggruppava tutte le discipline del budo giapponese), effettuata da Yasuhiro Konishi nel 1929, è registrata nel Butokukai–shi (giornale del Butokukai) con il termine tōde. Tra l’altro il karate non era ancora riconosciuto come ryū–ha (stile ufficiale) nel registro del Butokukai, ma compariva sotto la voce jujutsu.

Nel 1932 Choki Motobu (1871-1944) scrive il libro “Watashi no ryū jutsu”. 
Nella copertina sono chiaramente identificabili i kanji  e de (te). 
Il termine jutsu significa ‘arte’ o ‘tecnica’ e voleva far sottintendere l’origine “pratica”, “reale” del tōde.



Watashi no tōde jutsu


Analogamente anche Chōjun Miyagi (1888-1953), per lo scritto “Karate Gaisetsu” (Spiegazione generale sull’arte del karate) del 1934, utilizza il termine tōde.



Karate Gaisetsu


Il 26 dicembre del 1933 il karate è riconosciuto dal Butokukai come ryū–ha
Chōjun Miyagi sottopone Gōjū ryū tōde come nome del proprio stile. 
Il termine ryū ha un significato letterale di ‘corrente’, ‘stile’, ‘larga comunità con un progetto comune’.

Il riconoscimento del karate come arte marziale giapponese ed i crescenti problemi con la Cina spinsero i praticanti di karate, soprattutto quelli che praticavano nel centro del Giappone, ad una profonda riflessione sul nome da dare alla propria arte.

Con la pronuncia kara (metodo Kun) poteva venire letto anche un altro kanji con il significato di ‘vuoto’.

Il termine karate – mano vuota, oltre a rappresentare uno stile di combattimento senza armi, rappresentava bene anche la via spirituale indicata dal buddismo.

Nel 1935 Gichin Funakoshi, trasferito da parecchi anni a Tokyo e quindi a diretto contatto con i sentimenti ideologici dell’epoca, scrive il libro “Karate dō kyohan”, utilizzando il termine karate – mano vuota.


Karate do kyohan


E’ da notare che Funakoshi aveva già utilizzato il termine in una poesia scritta nel 1922 (2), inoltre non fu il primo ad utilizzare tale termine in uno scritto dedicato al karate: infatti, nel 1905, Chomo Hanashiro (1869-1945), compagno di pratica di Funakoshi in gioventù, utilizzò il termine karate (mano vuota) nel suo libro “Karate kumite”. 
Non è nota la motivazione che lo spinse a quell’utilizzo, una ipotesi è che potrebbe avere preso spunto dal quinto dei kenpo hakku (poemi sulle arti marziali) presenti nel Bubishi, che recita: “Non appena gli arti incontrano il vuoto, si dispongono secondo una tecnica giusta”. 
Il Maestro di Hanashiro e di Funakoshi, il già citato Itosu, possedeva sicuramente una copia del Bubishi (3)
Il Maestro Funakoshi ha lasciato questa definizione di kara: “Come la levigata superficie di uno specchio riflette qualunque cosa le stia di fronte e una quieta valle riecheggia anche i più piccoli suoni, allo stesso modo il praticante di karate deve rendere vuota la sua mente di egoismo e di debolezza nello sforzo di reagire adeguatamente in qualunque circostanza”. 
Funakoshi aggiunge inoltre il suffisso  (‘via’, ‘strada’) alla parola karate, come nel judo o nel kendo, per enfatizzare il significato spirituale dell’arte, già evidenziato dal carattere kara – vuoto.
 
Ormai il dado era tratto, il termine karate – mano vuota fu infine recepito ed accettato anche ad Okinawa, il 25 ottobre del 1936, nel corso dell’incontro che riunì alcuni dei più noti maestri di Okinawa dell’epoca.

In principio quindi i maestri di karate di Okinawa non si erano mai posti il problema di assegnare un nome formale all’arte di combattimento da loro praticata: la chiamavano semplicemente te o tode. Né tantomeno di differenziare con un nome uno stile invece che un altro. Nel momento in cui, però, cominciarono a viaggiare nel centro del Giappone, il confronto con le arti marziali tradizionali giapponesi li costrinse a cambiare atteggiamento. 
Il 5 maggio 1930 Chōjun Miyagi fu invitato a prendere parte ad una dimostrazione di arti marziali giapponesi in occasione della festa per l’inaugurazione del tempio Meiji Jingu a Tokyo, alla presenza di membri della famiglia imperiale. 
Miyagi declinò l’invito, ma mandò quello che allora era il suo migliore studente, Jin’an Shinzato (1901-1945). Al termine della dimostrazione Shinzato fu avvicinato da uno degli altri dimostranti, che, impressionato dalla dimostrazione, gli chiese quale era il nome dell’arte. 
Non è rimasta traccia della risposta di Shinzato, ma probabilmente rispose Naha-te (cioè il te di Naha, la città dove viveva e praticava Chōjun Miyagi).

Ritornato ad Okinawa Shinzato raccontò l’accaduto al Maestro Miyagi. 
L’accaduto fece realizzare a Miyagi che, per essere alla pari delle altre arti marziali giapponesi, doveva dare un nome al suo stile di karate. Prendendo spunto dal terzo dei kenpo hakku riportati nel Bubishi, “ho gōjū donto” (‘essenziali sono l’inspirazione e l’espirazione con forza e cedevolezza’), Miyagi ritenne che, data la natura dello stile, che possiede tecniche “dure” e “morbide” con enfasi sulla respirazione, Gōjū fosse il nome ideale.

Kenpo hakku

Note:
(1) I kanji sono ideogrammi cinesi che possono essere letti in due modi diversi: On e Kun. On è il metodo cinese, mentre Kun è il metodo giapponese.
 (2) Nella poesia Funakoshi utilizzò, invece del termine consueto “mano cinese”, il termine “ku ken” (pugni vuoti), dove “ku” e “kara” sono rappresentati dallo stesso kanji, pronunciato in maniera diversa. 
 (3) Il Bubishi è un antico trattato, composto da 32 articoli, di origine non chiara, probabilmente cinese, e non attribuibile a nessun autore. Diverse persone ne possiedono un esemplare copiato a mano, e le copie non sempre sono congruenti tra loro.

© 2018, Roberto Ugolini
Clicca qui per il link al testo originale


© Tora Kan Dōjō







sabato 15 dicembre 2018

L'uomo è fatto di corpo e di spirito





"Credo che tutte le mattine, prima di mettermi al lavoro, dovrò rivolgermi al mio interno e rimanere una mezzora ad ascoltare quello che c'è in me: dovrò "immergermi in me stessa", potrei anche dire meditare, ma ho ancora qualche difficoltà con questa parola. E perché dovrei farlo? Una mezzora di pace in se stessi. Muovo le braccia e le gambe e gli altri muscoli al mattino in bagno. Ma questo non è sufficiente.  L'uomo è fatto di corpo e di spirito.  Una mezzora di ginnastica e una mezzora di meditazione possono costituire un'ampia riserva di pace e di concentrazione, bastevole per tutta la giornata. Ma un'ora di pace non è semplice da conquistare. Bisogna costruirla cancellando nel nostro intimo tutti i guazzabugli e le meschinità..."

Etty Hillesum 


© Tora Kan Dōjō




mercoledì 12 dicembre 2018

Le quattro e mezzo

Per un attimo, mentre me ne stavo una mezz’ora al sole sulla nostra terrazzina di pietra, seduta sul bidone dei rifiuti, la testa appoggiata al mastello, con i raggi che cadevano sui rami forti, scuri e ancora senza foglie del castagno, ho sentito nettamente la differenza tra prima e adesso. 
Ora riesco a esprimere in breve ciò che ho provato, laddove stamattina avevo ancora bisogno di molte parole: quel sole sui rami scuri, gli uccelli cinguettanti e io sul bidone, al sole. 
Anche in passato restavo spesso a sedere così, ma non mi sono mai sentita come oggi, tranne qualche rara volta.
Prima osservavo un albero sotto al sole soltanto con la mente: volevo dire a me stessa il motivo per cui lo trovavo tanto bello, volevo trovare le parole e comprendere come l’insieme funzionasse; desideravo scandagliare con la mente quella profonda sensazione, quell’impulso primordiale, almeno credo. Volevo quindi assoggettare la natura, vale a dire il tutto; volevo contenerlo. 
E il bello invece è – ed è davvero semplice – che adesso sono io a sentirmi assoggettata al tutto. Mi aggiro di qua e di là, invasa da questa profonda sensazione, ma essa non mi prosciuga più l’anima: al contrario, mi dà forza.
Nelle mie vene scorre un sano flusso vitale, tanto che, mentre me ne stavo al sole, ho inconsapevolmente piegato la testa, come se potessi assimilare meglio quel nuovo senso di vitalità. 
D’un tratto ho compreso come una persona, il volto nascosto dietro le mani giunte, possa crollare violentemente sulle ginocchia e poi aver pace.

Etty Hillesum

Diario’1941-1943.
(Traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone.
Adelphi, La collana dei casi ©2012)

© Tora Kan Dōjō






domenica 9 dicembre 2018

Senza arrendersi alla pioggia Ita/Eng




Senza arrendersi alla pioggia

Non lo vince la pioggia
Non lo vince il vento
Non lo vince la neve, o la calura dell’estate
Ha un corpo forte
Non ha desideri
Non perde mai la calma
Ride sempre di un sorriso tranquillo
Ogni giorno mangia quattro scodelle di riso bruno, del miso e un po’ di verdure
In tutte le cose, non tiene in considerazione se stesso
Osserva attento, ascolta, capisce
E non dimentica
Vive in una piccola capanna dal tetto d’erba, all’ombra di un bosco di pini nelle campagne
Se ad est c’è un bimbo malato, va a curarlo
Se a ovest c’è una madre stanca, va a sorreggere il suo covone di riso
Se a sud c’è qualcuno vicino alla morte, gli va a dire che non serve aver paura
Se a nord c’è una lite o una disputa legale, esclama: smettetela con tali sciocchezze
In tempo di siccità versa le sue lacrime
Se l’estate è fredda va in giro dandosene pensiero
Tutti dicono che è una testa vuota
Nessuno lo elogia
E nessuno è preoccupato per causa sua

Questa è la persona
Che io voglio diventare

Miyazawa Kenji

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Ame ni mo makezu
Kaze ni mo makezu
Yuki ni mo natsu no atsusa ni mo makezu
Jōbu na karada wo mochi
Yoku wa naku
Kesshite ikarazu
Itsu mo shizuka ni waratte iru
Ichi nichi ni genmai yon gō to
Miso to sukoshi no yasai wo tabe
Arayuru koto wo
Jibun wo kanjō ni irezu ni
Yoku mikiki shi wakari
Soshite wasurezu
Nohara no matsu no hayashi no kage no
Chiisa na kayabuki no koya ni ite
Higashi ni byōki no kodomo areba
Itte kanbyō shite yari
Nishi ni tsukareta haha areba
Itte sono ine no taba wo oi
Minami ni shinisō na hito areba
Itte kowagaranakute mo ii to ii
Kita ni kenka ya soshō ga areba
Tsumaranai kara yamero to ii
Hideri no toki wa namida wo nagashi
Samusa no natsu wa oro-oro aruki
Minna ni deku-no-bō to yobare
Homerare mo sezu
Ku ni mo sarezu
Sō iu mono ni
Watashi wa naritai

Miyazawa Kenji


© Tora Kan Dōjō








mercoledì 5 dicembre 2018

Un solo rintocco


Capita spesso che debba prendere su con me l'indispensabile e andare a camminare da sola per un po' senza sapere dove e perché. 
Anche perché un perché non c'è ma un dove sì. 

È un 'rituale' che mi piace. Ieri ad esempio, passeggiavo per il parco vicino casa; in lontananza un papà e due bambini che giocavano a nascondino, gli alberi cullati dal vento estivo, il canto delle cicale, l'erba ben curata, e poi c'ero io.

Tutto, i colori, il profumo fresco dell'erba, le risa lontane dei bimbi, i miei piedi orrendi che mi perseguitano, tutto mi riportava a qualcosa di già vissuto... un déjà vu, si dice così! 

Ho speso metà del tempo della mia passeggiata a cercare un ricordo di un ricordo piacevole? Sì... e non l'ho trovato. 
A trovarmi, o forse è più consono dire, a salvarmi da quel vortice di tenera ricerca è stato il suono improvviso di una campana... un solo rintocco, chiaro, limpido e così vicino a me.
Stop... 
L'istinto è stato quello di capire da dove provenisse, ma poco prima, poco prima di ricercarlo con gli occhi e la mente, le mie orecchie e il mio cuore hanno assistito ad un senso di unione profonda, oso dire alla terra che mi ospitava in quel momento. Quel tocco così tondo e semplice mi ha riportato qui, nel tutto. 
Allora il rintocco di una campana assume il significato di "Unità" che va aldilà di ogni pensiero razionale. 
Mentre la mente cerca un perché, il cuore lo comprende e lo realizza nel presente. 
La mente usa la memoria ma un cuore puro l'annienta. 
Mentre la mente trova un motivo ''in più'' per vivere, il cuore sta dicendo: "Nasci e muori ad ogni istante, ogni battito è ultimo. Sei già vivo, sei già morto." 
Ecco, il tocco della campana che ha accompagnato il mio passo, non aveva più provenienza, né nome di una religione, e poco importa da chi sia scaturito, da un monaco cristiano, da un monaco buddista... 
È un suono universale che unisce tutti in egual misura, senza distinzioni... 
E se ascolto bene a fondo dentro di me la sento ancora risuonare come una benedizione.
Da un ricordo nasce così un altro ricordo che spero però di poter presto dimenticare.


Monica De Marchi 


© Tora Kan Dōjō
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