Il testo che segue è la prima parte della trascrizione di alcune lezioni tenute nel Dōjō Zen da Sensei Paolo Taigō Spongia a commento del Tai Taikō di Dōgen Zenji.
Le lezioni, che prendono le mosse dalla pratica dello Zazen, hanno un carattere colloquiale di cui tener conto durante la lettura.
Pubblicheremo a breve anche la seconda parte.
Il
Tai Taikō è un capitolo dell’Eihei Shingi, la regola di Eiheiji, il Tempio
fondato da Dōgen Zenji tra le montagne del Fukui.
Fui
folgorato da questo testo all’inizio della mia pratica. Mi fu suggerito dal mio
Maestro e immediatamente raccolsi il suo invito ed il testo fu tra le mie mani.
Il
Tai Taikō è una raccolta di indicazioni-esortazioni rivolte ai monaci riguardo
l’etichetta da osservare in ogni loro comportamento in relazione agli anziani
del Tempio, di quelli che potrebbero essere considerati degli Insegnanti (Taikō
sta per anziano o insegnante). Ma in senso lato si tratta di un’educazione
profonda da mettere in pratica in ogni situazione e insegna a relazionarsi agli
ambienti, alle situazioni, un’educazione alla sensibilità, alla capacità di
comprendere il ritmo, il tempo e lo spazio di ogni situazione e l’armonizzarsi
con essa: l’essenza della consapevolezza in azione.
Il
testo mi è stato di grande ispirazione. in esso ho ritrovato quegli elementi
dell’educazione Zen che con ogni probabilità a suo tempo attrassero i Samurai,
i quali colsero in essi l’occasione per affinare il proprio Zanshin (presenza
totale). Si tratta di un testo che ogni artista marziale dovrebbe studiare.
L’articolo
4 dice: “ Davanti ad un Taikō, sedetevi ben eretti (in seiza), senza pendere
all’indietro, e non guardatelo negli occhi con insistenza.”
Come
usare gli occhi, come usare i sensi? Questo diventa la base di tutta
l’educazione Zen ed è roba che non si studia sui libri ma concentrandosi sulle
maniere mentre ci si relaziona agli altri, allo spazio, agli oggetti durante la
pratica nel Dōjō. Questo deve poi trasparire in ogni comportamento.
Lo
sguardo deve essere franco, sincero, deve sapersi abbassare al momento
opportuno per non essere aggressivo senza però per questo perdere la visione.
Bisogna imparare a vedere con tutto il corpo e usare lo sguardo con misura e
decisione.
Ogni
artista marziale dovrebbe sottoporsi ad una ri-educazione di questo genere.
Sawaki
Roshi, rivolgendosi ai praticanti di Arti Marziali, affermava: “La vera tecnica
del corpo deve essere la sostanza dello spirito… non bisogna guardare il corpo
dell’avversario, ma dirigere il nostro spirito. In realtà non esiste nessun
nemico…”.
Possono
sembrare norme di comportamento banali, come non sbadigliare in faccia alla
gente, che però a ben vedere stanno a segnalare la ricerca di una sensibilità
nel capire il contesto, il tempo, il ritmo di ogni situazione. Ogni gesto, a
seconda del contesto, a seconda del luogo, del momento, può essere un gesto
costruttivo così come distruttivo; può essere un gesto amichevole come
aggressivo. A seconda del tempo e del luogo lo stesso gesto può avere effetti
diametralmente opposti.
Se
volete attaccare, se siete aggressivi, lo testimoniate con un gesto, col vostro
modo di muovervi.
In
altri tempi, quando il pericolo era all’ordine del giorno, un certo modo di
utilizzare i sensi divenne molto naturale ed importante. E questo vale per
l’artista marziale come per il monaco: saper pazientare, saper vedere oltre
l’apparenza senza essere condizionati dai suoni, dal tatto, dalla vista, dallo
stesso pensiero.
Nell’Hannya
Shingyō questo è descritto chiaramente:
Mu
Gen Ni Bi Ze Shin I.
Mu
Shiki Shō kō Mi Soku Hō.
Mu
Gen Kai Nai Shi Mu I Shiki Kai…
In
Zazen non ci sono occhi, orecchie, naso, lingua, corpo, coscienza, né i loro
oggetti e rispettive coscienze.
Tradizionalmente
l’altare del dōjō Zen, dello Zendō, è più o meno al centro del dōjō.
Una
struttura, su cui in genere è posata la statua di Manjusri Bosatsu a cavallo di
un leone. Rappresenta lo Zazen: seduti sulle nostre illusioni, sulle nostre
manie, agitazioni mentre il leone (la mente) è irrequieto, il monaco è seduto
calmo in Zazen (la postura che unifica corpo-mente) e cavalca il leone.
Quando
ci si muove nel Dōjō non si deve mai tagliare la linea che congiunge l’altare
con il posto dell’insegnante, si deve percepire sulla pelle questa linea, come
un raggio laser, che non va oltrepassato.
E
muovendosi nel Dōjō tutti i sensi devono essere attivati, si deve vedere con la
pelle, pensare con i piedi, con le mani. Il Jikidō deve muoversi come una tigre
nella foresta, rilassato ma estremamente vigile.
Sono
molti i percorsi simbolici che nel Dōjō educano potentemente a questa vigilanza
e sensibilità.
Uno
straordinario addestramento per i cosiddetti ‘artisti marziali’ contemporanei
che praticano ormai in un ambiente addomesticato che poco permette di affinare
queste qualità.
Oggi
il Budō ha bisogno dello Zen tanto quanto lo Zen ha bisogno del Budō, affermava
il mio Maestro.
Mentre
ai monachelli Zen delle nostre parti farebbe assai bene una rigorosa pratica
del Budō.
Qualche
giorno fa sono stato invitato a condurre un Gasshuku e ho fatto visita ad un
Dōjō della nostra Scuola. Recentemente il Dōjō era stato ripulito e ampliato ma
ho notato qualcosa, che già avevo segnalato al mio allievo che conduce il Dōjō,
come inadeguata: sul lato d’onore, dove sono esposte le immagini dei Patriarchi
della nostra Tradizione (Kannryo Higaonna Sensei, Chojun Miyagi Sensei e
An’Ichi Miyagi Sensei) erano montate due mensole di laminato, bruttissime, e
sopra di esse una candela tutta storta e una piantina di plastica.
Allora,
visto che non tollero l’approssimazione da parte dei miei allievi, ho spiegato
che c’è un significato profondo dietro questi linguaggi simbolici e che non
devono essere trattati con superficialità, c’è una cultura che va studiata e
assimilata profondamente per poter padroneggiare questi linguaggi, altrimenti
si rischia di mettere in atto delle imitazioni caricaturali, ridicole quanto
irritanti. Non ce lo possiamo permettere. Non ci possiamo permettere di essere
approssimativi quando ci facciamo interpreti di una tradizione, assolutamente!
Volete
capire che anche la mensola che scegliete, la cura con cui la installate, gli
oggetti che scegliete di disporre su di essa, tutto fa parte della vostra
offerta? Non solo quel fiore che offrite, quando ve lo ricordate!
La
cura con cui scegliete la mensola, la montate… parlerà direttamente al cuore di
chi si troverà ad inchinarsi di fronte ad essa.
Se
fate caso a queste mensole [il Maestro indica le belle mensole in legno che
arredano l’altare del Tora Kan Dōjō] non è che sono proprio delle mensoline
così a tirar via. Ogni mensola di queste è costata molto in termini di sforzo,
anche economico, perché io le ho volute lavorate in questo modo, martellate,
laccate in un certo modo… e non è che ci avanzassero i soldi, però sapevo che
dovevo farle così, non poteva essere altrimenti. Dev’essere una cosa bella,
preziosa, perché è un’offerta.
Chiunque
entra in questo Dōjō o in un Tempio Zen, non può non rimanere in qualche modo
toccato profondamente, seppur inconsciamente, da come è disposto l’altare,
dalla cura che trasuda ogni parete, ogni dettaglio di questi spazi. Perché tutto
è disposto in un modo che trasmette potenza e armonia, è una tradizione
millenaria che trasmette questo. Non si può improvvisare, mettere su due
mensoline storte con sopra una piantina di plastica… non è così che funziona.
Devi
fare lo sforzo di capire qual è il senso a monte di tutto questo. E il senso è
quello dell’offerta: innanzitutto offro me stesso con la pratica, lo studio, la
cura e faccio offerta per mantenere viva la memoria e la gratitudine nei
confronti di chi è venuto prima di me e mi ha offerto la preziosa possibilità
di accedere a questa tradizione.
Io,
che ho maturato negli anni una certa avversione verso le chiese e le
istituzioni religiose, riconosco però che le chiese, così come erano costruite,
pensate, erano delle offerte, erano una celebrazione alla grandezza di
Dio, non si poteva fare una cosa
approssimativa.
Anche
una chiesina umile come la Porziuncola di Francesco d’Assisi è stata costruita
da Francesco e dai suoi primi frati pietra su pietra, elemosinando a piedi nudi
le pietre nei dintorni di Assisi. Non si deve trattare necessariamente di una
basilica ma è una cosa ben diversa dal mettere lì due mensoline di Ikea. E’ qui
che innanzitutto si esprime lo spirito religioso, il senso profondo della
pratica. In che modo tu stai offrendo qualcosa, stai offrendo te stesso? Le tue
capacità, le tue risorse? Se non hai gli elementi culturali, economici… ti
attivi, studi, lavori, elemosini… perché tutto questo diventa la tua offerta.
Altrimenti
quando poi inviti il tuo Maestro nel Dōjō le tue mensole posticce saranno un
insulto alla sua Tradizione e denunceranno la tua scarsa cura. Questo
influenzerà chiunque entrerà nel tuo Dōjō ben più di tutti i diplomi che potrai
attaccare al muro, parlerà chiaramente dello spessore della tua pratica e della
tua sincerità.
I
fiori devono essere sempre freschi, senza cercare scorciatoie mettendoci una
piantina in vaso o peggio di plastica, ti devi scomodare e far sì che
quell’offerta diventi nutrimento quotidiano e non una noiosa incombenza da
mettere in atto di tanto in tanto.
Questi
gesti quotidiani nutrono il nostro spirito, la pratica è Gyōji, impegno
quotidiano, continuo: Shū Shō Ichinyō, Pratica e Realizzazione/Risveglio
coincidono.
In
questo luogo (Tora Kan Dojo) sono più di venticinque anni che ci sono sempre
fiori freschi sull’altare, disposti con grande cura, che il dōjō sia aperto o
chiuso. E’ una cosa bella, importante, è un segno del cuore che anima questo
posto. Non è che lo facciamo solo per noi, è chiaro che nutre anche noi vedere
la bellezza dei fiori, la cura con cui son disposti, sicuramente, ma lo
facciamo a prescindere dal fatto che qualcuno li veda, è la nostra offerta.
Il
gesto stesso di scegliere la mensola, di montarla ben dritta utilizzando la
livella, il mettere con cura l’acqua ai fiori, tutto questo ti offre il senso
compiuto di ogni altra tua azione nel Dōjō,
Sull’altare
sono rappresentati gli elementi del cosmo, c’è il fuoco, che è nutrito
dall’aria, c’è l’acqua, c’è il verde, la natura… c’è tutto… c’è l’immagine di
un uomo alla ricerca, un Buddha.
Quando
offri un incenso di fronte a questo altare in quel momento celebri la totalità
della vita.