venerdì 28 marzo 2025

L'assenza di pensiero è il pensiero istantaneo (Chen Huei)

"L'assenza di pensiero è il pensiero istantaneo". Ora, l'errore sarebbe ritenere che assenza di pensiero voglia dire qui non pensare a nulla. È un fraintendimento in cui spesso si può cadere e di fatto è così. Ma si tratta di qualcos'altro. Costringere al silenzio i pensieri è il risultato di un atteggiamento contrastivo, concentrato in modo reattivo e violento: è una via perseguita da certe tradizioni meditative, ma non dallo zen. Il non-pensiero di cui parla lo zen non esclude nulla; è per certi versi il contrario: è un'apertura, è un atteggiamento non discriminante. È una via verso l'abbandono, il cedimento. I pensieri permangono nella loro naturalezza, si susseguono nella loro fresca istantaneità. Se io voglio raggiungere il silenzio assoluto dei pensieri, allora il mio atteggiamento è innaturale e dualistico: la mia mente è piena di pensieri e io voglio arrivare a chissà quale mistico svuotamento!

"Il pensiero istantaneo è l'onniscienza". Allora è ovvio che quando lascio la presa, quando mi scrollo di dosso la tenace volontà di liberarmi la mente dei suoi contenuti, rimane il pensiero pensato in questo momento, in questo preciso istante, nella sua pulizia, nella sua assoluta presenzialità. Nel qui e ora del pensiero sono solo e semplicemente in quel pensiero stesso che sta istantaneamente passando in me: essere solo quel pensiero vuol dire onniscienza. Una conoscenza totale, illimitata, perché non più costretta dai limiti separativi, bensì coincidente con la mente conoscente e l'oggetto di pensiero. Conoscenza, conoscente, conosciuto si identificano: è come dire libertà, o anche infinito.

"Il pensiero nell'assenza di pensiero è la manifestazione, l'attività dell'assoluto". A questo punto non c'è più qualcuno che pensa e che si pone di fronte a qualcos'altro. Non c'è più una mente che ha dentro di sé un pensiero. Se sei penetrato da quel pensiero, quello di questo istante e nient'altro; se sei così semplice da non complicare tutto costruendoti i tuoi infiniti vaniloqui interiori; se non ti poni con un atteggiamento teso e reattivo, allora sei uscito dal dualismo soggetto-oggetto, anche quello presente nella coppia mente-pensiero. Sei in una dimensione cui non puoi dare un nome definito; eppure l'attività del pensare sussiste ancora, ma non è più oggettivata, non è più originata a colpi di atti di volontà o in uno stato di inconsapevolezza. Si dà spontaneamente, libera: è una "manifestazione", più che un oggetto; è "l'attività dell'assoluto", e non più una scelta o un'opzione soggettivistica, personalistica, egoica.

 

Chen-Huei


© Tora Kan Dōjō
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lunedì 3 marzo 2025

Sorella Povertà


 

Pubblichiamo l'estratto di un Insegnamento offerto da Taigô Sensei durante la Pratica Zen.

Mi viene in mente l’esempio del nostro fratello e Maestro Francesco d’Assisi.

Era estremamente radicale nel modo in cui ha voluto vivere imitando Gesù, era radicale, non facile né da comprendere né da seguire, non faceva sconti a nessuno; andando oltre l’immagine addomesticata che ci è stata trasmessa.

Francesco con la sua lieve, delicata presenza, era di un’energia spaventosa che scuoteva le radici della vita di chi lo incontrava, come succedeva a chi incontrava Cristo, o il Buddha.

Una delle cose sulle quali Francesco era totalmente radicale, e non scendeva a nessun compromesso, era la povertà. Sorella Povertà, che riteneva la condizione essenziale, la prima condizione per i compagni della comunità che si era riunita intorno a lui. Anche questa idea di povertà è stata addomesticata perché è spesso confusa soltanto con la rinuncia a beni materiali.

Nel momento in cui nella piazza di Assisi Francesco ha restituito al padre i suoi abiti ed i pochi soldi che aveva con se, si è interpretato ‘addomesticando’ questo potente gesto con una rinuncia ai beni materiali.
In realtà quel momento segnava l’Ordinazione di Francesco, non c’è stato bisogno di un’istituzione che gli riconoscesse con un diploma la sua Ordinazione.
Francesco si è ordinato il giorno in cui ha restituito gli abiti al padre … ed ha scelto la sua vita.

È lo stesso gesto che fa il monaco Zen quando viene ordinato prosternandosi di fronte alla stele che rappresenta la sua famiglia. Restituisce i suoi abiti ed indossa il Kesa. Questo  significa riscoprire il legame familiare con un’altra profondità, un altro registro, una maturità che non sia quella della dipendenza.

La povertà di Francesco non era il rinunciare a qualcosa con sacrificio, ma era la gioia di aver compreso che non si aveva bisogno di nulla, la gioia di aver tranciato gli attaccamenti che non poteva che esprimersi con una vita semplice, sobria.

Dante rappresenta la lupa di Francesco come l’immagine del pericolo che lui ha domato. I pericolo dell’inseguire l’attaccamento, l’avidità; il lupo che è dentro di noi ingordo ed avido di tutto, anche di amore, quell’amore che viene soffocato dall’avidità.
La scelta consapevole di non voler più accumulare per sé stessi ma vivere con un abito ed una ciotola.

Su questo Francesco era radicale; un giorno trovandosi a Bologna dove si era costituita una piccola comunità di frati che seguivano la sua “regola” andò a fargli visita e si accorse che questi frati avevano costruito un edificio in cui vivevano, in cui avevano anche ospitato malati e bisognosi … si adirò furiosamente, cacciò fuori tutti, compresi i malati. Intimò ai suoi frati di andare per il mondo: “non dovete fermarvi, dovete servire muovendovi senza avere una casa fissa”.

Pensate quanto questo sia vicino all’esempio del Buddha … non dovete fermarvi, esortava il Buddha i suoi discepoli. Ogni giorno dovevano essere in un luogo diverso ad elemosinare il pane quotidiano senza conservare nulla per il giorno dopo.
Francesco sapeva che il fermarsi, l’attaccarsi, avrebbe corrotto la vita e la pratica dei suoi monaci.

Vedete quante coincidenze con l’attualità della pratica religiosa … 

La povertà di Francesco era una scelta, scelta di vivere sobriamente sapendo che nulla manca, senza alcun bisogno di accumulare … d’altronde lui giocava a Cristo, imitava Cristo e Cristo lo aveva detto chiaramente: non c’è bisogno che vi affanniate, ogni giorno ha il suo affanno, ma guardate gli uccelli nel cielo come sono splendidamente rivestiti senza dover cucire, non gli manca nulla, perché pensate che a voi possa mancare qualcosa ?

Anche un povero può essere avido e affamato di desiderio, o rabbioso perché magari ha perso i suoi beni giocandoli a carte, ma questa non è la povertà di Francesco.

La povertà di Francesco e del Buddha è scoprire la propria pienezza ed esserne appagati e soddisfatti. E’ poter dare a pieni mani perché si è talmente ricchi che non si manca di nulla e si può offrire tutto agli altri. Ogni giorno svegliandosi, Francesco decideva quella vita.

Sawaki Roshi diceva: “Se voi anche per un momento siete capaci di rinunciare ad una bella casa o ad un cibo delizioso avrete offerto un grande dono a tutta l’umanità”. Pensate quanto attuali siano queste parole, quanto vere …

Ci troviamo oggi nella condizione di essere vicini all’annientamento della razza umana a causa della nostra avidità. È tutto lì. Tutti i problemi che viviamo, da quelli politici a quelli di vita quotidiana, derivano quasi esclusivamente dalla nostra avidità.

Anche se non arrivando alla scelta radicale di Francesco, diventiamo consapevoli di questo rivoluzionando un po’ la nostra vita come lo Zen suggerisce di fare, perché se noi non abbiamo capito questo dello Zen non ha nessun senso sedere in Zazen.
Se lo Zazen non è alla radice delle nostre scelte, se non ci fa diventare più sobri, più attenti a quello che tocchiamo, all’acqua con cui ci laviamo al mattino, agli abiti che indossiamo, non ha nessun senso sedere in Zazen e non abbiamo capito nulla dello Zazen.

Paradossalmente si può anche vivere una vita agiata e non essere avidi come si può essere privi di ogni mezzo di sostentamento e rimanere avidi. Dogen Zenji aveva una famiglia ricca e ha scelto di vivere una vita sobria, Francesco altrettanto, il Buddha era figlio di un Re…

Quindi noi possiamo cominciare ad essere più sobri, più attenti alla piccole cose; non una goccia d’acqua va sprecata, non un chicco di riso. Il modo in cui lavoriamo, in cui offriamo il nostro servizio nel lavoro, può essere improntato a questa consapevolezza. Questo è il valore della pratica religiosa in generale.


© Tora Kan Dōjō


















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