Si dice che Socrate avesse voluto più di una coppa di veleno per sacrificarne una parte al cielo, ma ci sono gesti che né la terra né il cielo possono contenere, che non si arrendono alla natura né agli uomini, ci sono favole che nessuna biografia può contenere né imprigionare, “Roba vecchia di una volta”, qualcuno potrebbe pensare.
Difficile da dire, ma senz’altro roba di un altro mondo, molto più vicino, però, a questo nostro mondo, dove può sempre accadere di sentirsi uniti, compagni, fratelli, sorelle, padri, madri, maestri, allievi.
Le onde non sono mai abbastanza alte né paurose per chi le sa guardare in faccia. E solo una tavola consente di cavalcarle, la tavola della via maestra, quella che ci fa sentire sullo stesso cammino e potrebbe far dire a qualcuno “Ricordo anche voi quando eravate ragazzi. Sembra un sogno….”.
A Cesare Barioli, che ho
incontrato nella sua casa natale di Milano, ho chiesto di scrivere del mito e
della sua poesia…
Fausto Taiten Guareschi
Caro Fausto, chiedendo di parlare della Via mi fai ringiovanire. E mi chiedo se la memoria non mi inganna e quello che racconto non sia fantasia… C’era stata la Guerra. Crescevo tra le infamie del dopoguerra e l’entusiasmo della ricostruzione. Io scoprivo il mondo, ma tutta l’Italia scopriva una diversa maniera di vivere. Venivo da un gruppo scout che aveva patito quattro morti in sei mesi: a imitazione di Cristo, Akela insegnava la sofferenza per salvare l’anima e io mi ribellavo, sognando di introdurre il judo francese nello scoutismo. Ma capitai tra i terzo-internazionalisti dell’Associazione Proletaria di Educazione Fisica e conobbi degli uomini di fede, come Attilio Maffi, medico che curava gratuitamente i braccianti nell’Oltre-Po, e il vigile del fuoco (Maestro di Jūdō) Emilio Roveda che era stato torturato dai nazisti a Villa Triste e poi si autoaccusò del furto commesso da un altro pompiere perché il colpevole aveva famiglia, mentre lui era scapolo. Accettò il disonore di degradazione ed espulsione per non condannare alla fame della disoccupazione una famiglia…
Insomma, quando mi venne spiegato che era importante vincere ad ogni costo (avevano un poco il mito della classe operaia), mi ribellai e cominciai a fare di testa mia. La crisi mi colse al primo Campionato regionale. Ero in finale all’italiana con Bozzini della Pirelli e Angelo, mio compagno di Società, e proiettai facilmente il primo, ma Angelo ci perse. Allora ricevetti ordine di perdere con Angelo perché, con una vittoria e una sconfitta ciascuno, la classifica si sarebbe risolta al peso col risultato di Angelo primo, io secondo e l’atleta della Pirelli terzo. Lo feci. Ma la morale proletaria della vittoria di squadra non faceva per me. E neppure la sconfitta. Mi trovai ad andare in gara, rifiutando questi obiettivi: nel combattimento di judo ritenevo perseguibile la bellezza del gesto e null’altro. Mi consideravano strano, ma raggiunsi la fama di tecnico. E quando andai in Nazionale, i romani mi accusarono ‘di non combattere per l’Italia’. Ed era vero. Io vincevo le selezioni e loro mettevano in squadra il secondo classificato. Inutilmente li sfottevo dicendo che papà aveva vinto un’importante competizione a squadre chiamata Prima Guerra Mondiale, mentre io andavo ai Campionati Europei a fare judo: loro erano combattenti-agonisti e ritenevano di portare gloria al Paese.
Nel ’55 lessi su Illustred
Kodokan Judo: “Il primo piede sulla Via è posto quando sono superati i concetti
di vittoria e sconfitta”. Poi Kano allude al judo come gyo, esercizio
ascetico dei monaci (sanscrito ‘sanskara’). Diedi fiducia a queste parole.
Supposi che potessero ispirare la vita e, quando smisi l’attività agonistica,
il mio avversario era il mondo, ma in palio non c’era vincere ad ogni costo, ma
la bellezza dell’azione e l’estetica del fare.
C’era il gesto semplice
di portare il cucchiaio alla bocca e quello complesso di donare ogni avere a
qualcuno che ne avesse bisogno. Così ero pronto alla possibilità di morire se
fosse capitata l’occasione. Ma non avvenne. Forse ebbi paura di andare in
Vietnam, ma da una parte o dall’altra della guerra l’occasione di donare la
vita l’avrei trovata. Non lo feci, con la scusa di studiare quanto Kano Jigoro
aveva nascosto nei kata… Avevo la proibizione di parlare della Via.
Perché l’allievo
valorizza le sue qualità arrivandoci da solo. Solo due volte mi trovai
scoperto: una volta a pranzo dall’ingegner Rosemberg, maestro dell’arco da
guerra. Lui comprese perfettamente il mio stato di essere quando presi una
posata per mangiare e io sono arrossito per il riconoscimento che mi ha dato,
segnalandolo alla moglie. Ma l’ingegnere era uomo della Via. La seconda volta è
stata quando Marcello Bernardi ha scritto: “Apro una seconda e minuscola
parentesi. Trovo che Cesare sia ammirevole non solo per le sue qualità morali,
ma anche (forse meno nobilmente) per le sue doti estetiche, che si esprimono
nell’armonia. Quando pratica il judo sembra che voli e anche quando non fa judo
mantiene l’eleganza in ogni suo gesto. E anche questo mi sembra un nuovo e
importante contributo educativo ad un mondo che di estetico ormai ha ben poco”
(Corpo mente cuore, 1998). Marcello faceva judo, ma non gli avevo parlato dell’estetica.
Lui ci è arrivato da solo, favorito anche da una profonda cultura classica.
Com’è che avevo la
proibizione di parlare della Via? Non potevo spiegare ai miei agonisti che la
strada immediata per arrivare a Il Miglior Impiego dell’Energia e
quindi proseguire per Amicizia e Mutua Prosperità, consiste nel provare la
bellezza del gesto e perseguirla fino a disporne nella quotidianità? Beh, agli
agonisti era presto: loro credevano solo alla vittoria in gara e valutavano un
uomo dalle orecchie a carciofo.
Non potevo dire che
l’estetica introduce al Miglior Impiego dell’Energia, e che poi Amicizia e
Mutua Prosperità sgorga dall’estetica conquistata?
No. Certe cose si
tacciono. L’allievo sincero le assimila dall’insegnamento silenzioso. E non
subito. Deve superare shobu-judo: il judo da combattimento;
risolvere rentai-judo: essere sani per essere utili. Solo dopo si
affronta sushin-judo: la morale del nuovo periodo dell’Umanità.
E quando l’allievo è
arrivato a quel punto si tace, perché non vi è nulla da dire. Ch’io sappia in
otto ci arrivarono ed hanno una mia lettera che inizia: “Ho tutto dato a…”.
Solo se le circostanze mi avessero convinto che il messaggio autentico di Kano
fosse in pericolo, avrei potuto parlarne apertamente, e questo avvenne
venticinque anni fa quando ho cominciato a rivelare i kata.
Cesare Barioli e Taiten Guareschi |
Ho fatto fatica ad andare
contro-corrente, tutti i miei vecchi compagni mi hanno disprezzato, ma il più è
passato e ormai ci sono giovani che masticano le Forme di Kano Jigoro.
E allora, da qualche anno, ho cominciato a raccontare l’altra-estetica, qualcosa che è da fare, non da apprezzare perché l’ha fatta un altro. Parlo di un’estetica che non ha conferma in Kant, Croce o Adorno. E mentre i judoisti italiani mi guardano sempre strano e gli insegnanti di scuola cercano di strapparmi un giudizio sulla Gelmini (vorrebbero che io dicessi che non segue la Via..), trovo qualche spazio, qualche critica e qualche antagonista all’estero e concentro le poche forze in Congressi e Tavole Rotonde, come quella che radunerà a Pasqua in Romagna persone di tre continenti a discutere che ‘il futuro è un drammatico confronto tra l’educazione (la Via) e il caos. Caro Fausto, ho cercato di riassumere qualcosa che richiede mezzi, tempo e spazio superiori a un articolo. Probabilmente confondo il lettore. Ma l’essere umano ha diritto all’azione, non al risultato. Magari qualcuno un giorno troverà riscontro nelle mie parole.
Cesare Barioli
Tratto da Notiziario Zen - Fudenji
© Tora Kan Dōjō
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