Alberto Manzi |
La vera difficoltà per il funambolo, come per noi che viviamo la nostra normale quotidianità, non è quella di sollevarsi dal suolo e restare in equilibrio, ma quella di mantenere vivo il desiderio di avanzare, nonostante le difficoltà e il pericolo, con la certezza di giungere all'altra estremità del filo teso.
Un grande funambolo dell'educazione è stato di certo il maestro Alberto Manzi - famoso per aver insegnato a leggere e scrivere, negli anni Sessanta del secolo scorso, a milioni di italiani attraverso la trasmissione televisiva "Non è mai troppo tardi" - che in modo poco ortodosso riuscì a conquistarsi la stima e l'affetto dei suoi allievi del carcere minorile "Aristide Gabelli" di Roma, dove iniziò la sua attività di insegnante nei primi anni del secondo dopo guerra. Nella sua ultima intervista, rilasciata a Roberto Farnè, Manzi racconta questa sua esperienza che lo costrinse a progettare un modo di ver so di fare scuola.
<<Nel carcere minorile di allora vigeva ancora il regolamento di Pio IX. Non c'era un'aula, non c'erano banchi, non c'erano sedie. C'era un'enorme sala dove vivevano questi 94 ragazzi. [...] C'erano stati quattro maestri prima di me [...]. Avevo poco più di 22 anni e potevo sembrare un ragazzo come loro, anche perché dimostravo meno della mia età. Siccome mi vergognavo di fare scuola davanti alle guardie, chiesi loro di aspettare fuori e loro mi risposero: "No, non è possibile, altrimenti la picchiano!" Allora io dissi: "Se mi picchiano, io strillo e voi aprite", e così mi chiusero dentro. All'inizio i ragazzi mi avevano preso per uno di loro, e qualcuno mi chiedeva: “perché ti hanno pizzicato?" e io rispondevo. "E a te perché?" Così in poco più di un'ora, sapevo a sommi capi la storia di ciascuno; alla fine un ragazzo disse: "Sto maestro quando arriva?" e un altro: "Quando arriva ci pensiamo noi, gli facciamo...". A un certo punto ho detto che il maestro ero io e subito qualcuno di loro ha detto: "Sai che facciamo? Tu ti metti là in fondo, ti porti il giornale, se fumi ti porti le sigarette e noi per quattro ore stiamo tranquilli nessuno ci rompe le scatole e avremo quattro ore di libertà". , La mia risposta fu: "Pure a me andrebbe bene, ma lo Stato mi paga, poco, però mi paga e io devo fare scuola. Perciò io faccio scuola e voi dovete cercare di..." "Allora te la giochi" mi interrompe uno dei ragazzi e mi indica il loro capo, che si chiamava Oscar. "Ce la giochiamo - dice Oscar-se perdo io, tu farai scuola, se ci riesci. Se vinco io, tu ti metti lì nell'angoletto". A quel punto ho detto: "Vabbè, tira fuori le carte...". "Le carte?! Qui a cazzotti si gioca". Io avevo fatto quattro anni in marina, per cui avevo imparato... mi è di spiaciuto, ma alla fine l'ho picchiato".
Tratto da :’Dialoghi sul Judo’ di Giuseppe Tribuzio,
Luni Editrice 2019
© Tora Kan Dōjō
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