Questo articolo è stato poi pubblicato sul libro: ‘La Forma del Vuoto: Riflessioni su Zen e Arti Marziali’ di P.Taigō Spongia, edizioni Mediterranee.
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Il Kata è il modello pedagogico, la struttura attorno alla quale la pratica e la trasmissione delle Discipline tradizionali denominate Vie (Dō 道) viene organizzata.
Kata ( 形 ) è comunemente tradotto con: forma, modello, stampo (ed anche modellare, formare). Chi era presente alla mia lezione sul terzo capitolo dello Shūshōgi riconoscerà forse nel carattere Kata un radicale che è presente anche nel carattere Kai ( 戒 ), Precetti, che abbiamo trovato nel titolo del terzo capitolo, Ju Kai Nyui, che rappresenta due mani unite in segno di rispetto (gasshō) che tengono una lancia. In questo caso al carattere che rappresenta le due mani unite in segno di rispetto si aggiunge una linea superiore e quest’insieme rappresenta l’offerta. Il radicale di destra invece rappresenta un pennello.
Il Kata, possiede molte caratteristiche del rito: si svolge in uno spazio ed un tempo determinato, il Kata come il rito è rigido nella sua manifestazione, nel senso che non ammette deroghe alla sua esecuzione formale, coinvolge tutti i sensi (il rito è performance multimediale), ha un carattere ludico-simbolico, la profondità del Kata è difficilmente apprezzabile dall’esterno (se non per chi ha fatto profonda esperienza di quella percezione) perché nel rito come nel kata o si è dentro o si è fuori, il kata, così come il rito, permette di riaccedere all’evento fondante, alla percezione primigenia, ancestrale, primordiale.
Nell’esecuzione del kata, proprio come nel rito, mettiamo in atto una ‘vivente opera d’arte’.
Come nello shōdō, la calligrafia su carta di riso, il gesto è decisivo.
Dipingendo sulla carta di riso, il pensiero e l’esitazione sono fatali, così eseguire un kata è come dipingere con il proprio corpo-mente nello spazio-tempo, dipingere un mandala che immediatamente si cancella ma che lascia un’impronta nei corpi che vivono, di volta in volta, in un tempo differente.
Ogni volta che rieseguiamo il kata dobbiamo riorganizzare la memoria in relazione al momento presente costituito da un corpo-mente in continua trasformazione, dalle percezioni, sensazioni, dallo spazio/tempo.
Non può mai trattarsi di una ripetizione identica perché è un’illusione pensare che quell’io (illusorio e composito) possa eseguire due volte lo stesso kata…
Inoltre, nella tensione verso la perfezione il kata implica un continuo, inesorabile dinamismo interno.
Il carattere esprime in senso dell’offerta e questo è un punto, a mio parere, determinante.
Cos’è che offriamo eseguendo un kata ?
Offriamo noi stessi, quel che siamo in quel momento preciso: la nostra forza e la nostra fragilità, la salute come la malattia, tutta la nostra piena umanità.
Pur esprimendo qualità fisiche quali forza, velocità, equilibrio…non ha nulla a che vedere con una prestazione atletica.
Il Kata di un anziano Maestro, tremante sulle sue gambe non può essere apprezzato secondo i canoni dello sport.
Ricordo che nel 2002 al termine del mio esame a Godan, ad Okinawa, nel Dōjō di Higaonna Sensei, An’ichi Miyagi Sensei, che era in commissione d’esame, ci volle offrire la sua esecuzione del Kata Seiyunchin. Era uscito dall’ospedale da pochi giorni e in camicia e pantaloni si è alzato dalla sedia ed ha eseguito il Kata…è stato un momento di intensità straordinaria.
Il Maestro, avrebbe potuto fare un discorso per manifestare la sua soddisfazione, invece si è alzato e ha eseguito un Kata. Ci ha offerto il suo cuore.
Ora, per apprezzare appieno il valore e l’importanza del Kata, parlando in particolare del nostro stile, il Goju-Ryu di Okinawa, dobbiamo partire dal presupposto che il kata ha varie chiavi di interpretazione e di esercizio.
Chiavi che possono essere, nell’uno o nell’altro kata, più o meno presenti e rilevanti:
Poi possiamo suddividere i Kata in Kata di formazione e Kata applicativi, anche se a volte rimane difficile decidere se inserire alcuni kata nell’una o l’altra categoria e stabilire dei confini netti.
Nel Goju-Ryu Kata prevalentemente formativi sono i kata definiti anche Heishugata:
Kata Sanchin e Kata Tensho.
Higaonna Sensei ha affermato: “ allenando costantemente Sanchin e Tensho, si coglie ‘kukuchi’ l’essenza, la chiave, di tutti gli altri kata… quando si vede eseguire un kata superiore si capisce chiaramente se colui che lo esegue allena costantemente Sanchin e Tensho.
Senza cogliere il ‘kukuchi’ attraverso Sanchin, il kata è vuoto, magari ha anche una bella forma, ma è ginnastica, non Karate-Do”1
Il nome Heishugata o Heishu Kata sta a significare che il tanden rimane sempre chiuso durante tutta l’esecuzione del Kata.
Ma in entrambi i Kata ci sono elementi tecnici direttamente applicabili al combattimento, in particolare nel Tensho.
L’altra categoria di Kata del Goju-Ryu sono i Kaishugata o Kaishu Kata.
Di questa categoria fanno parte:
Così anche in molti kaishugata sono presenti elementi formativi.
La definizione Kaishugata da ad intendere che durante l’esecuzione del Kata il tanden si apre e si chiude in relazione al ritmo, al respiro e all’applicazione.
Vediamo di analizzare i singoli punti elencati.
1) automatizzazione e perfezionamento del gesto tecnico.
Il Kata viene allenato come un’unica sequenza continua e in tal modo si allenano alcune specifiche qualità. Ma il Kata viene esercitato anche ripetendo e perfezionando le singole sequenze.
La ripetizione delle singole azioni permette di raffinare e perfezionare qualità di velocità, equilibrio, potenza… necessarie all’efficace applicazione delle tecniche al combattimento.
Si varia la simmetria (versione omote e ura) dell’esecuzione, il ritmo, la direzione.
Attraverso la ripetizione si lascia che l’intuizione ci porti ad elaborare nuove interpretazioni del gesto.
A volte all’ennesima ripetizione, che, come tutte le ripetizioni può sembrare maniacale, apparentemente incomprensibile, sterile, scaturisce una nuova intuizione, nuove sensazioni, che aprono un’inatteso orizzonte.
L’allenamento delle singole azioni e sequenze ha come naturale integrazione e conseguenza l’allenamento del Bunkai con un partner (bunkai significa proprio, da Bunkai suru 分解する, scomporre, smontare, il Kata).
2) Studio e perfezionamento della postura/e in relazione allo spazio ed al tempo .
La postura è il leit motive, il fondamento dello studio del Kata.
La postura è strettamente collegata al respiro ed all’atteggiamento mentale.
Rettificando la postura si arriva a rettificare la mente e a permettere all’energia di fluire potentemente.
La postura corretta integra il corretto ritmo/profondità del respiro, la verticalità della spina dorsale e del tratto cervicale, lo sguardo e, soprattutto, stabilisce un centro all’azione attraverso la percezione e padronanza del tanden.
La postura è indissolubile dalla sua relazione con lo spazio (ma 間 ) e con il tempo e ritmo (hyōshi 拍子).
La postura è corretta nella sua relazione con la specifica situazione spazio/temporale, non esiste una postura corretta a priori, pur conservando alcuni principi fondamentali questa deve essere elastica ed adattabile.
La postura fisica è sempre anche una postura mentale.
E’ non irrigidirsi, non bloccarsi in nessuna postura rigida.
Tutta la confusione del mondo deriva da questo ‘assumere una posizione rigida nei confronti della realtà’.
La postura come detto integra molteplici aspetti fisici e mentali ed è questo che non ha capito una certa medicina ortopedica che ha pensato di correggere i paramorfismi intervenendo solo sulla struttura scheletrica e muscolare, come dire, intervenendo dall’esterno.
Mentre si deve trattare di una rieducazione globale che faccia sì che ognuno trovi la sua propria postura in base alle proprie caratteristiche.
3) Studio del ritmo, Hyoshi 拍子.
Il ritmo è il corpo sottile di ogni energia.
Ritmo significa anche ordine.
Il ritmo è presente in ogni ambito della vita, dal circolare del sangue, al ritmo delle stagioni, dal respiro alla musica, al combattimento in cui la padronanza del ritmo fa la differenza tra la vittoria e la sconfitta.
Così nella vita quotidiana conoscere il ritmo di ogni situazione è determinante.
I giapponesi parlano anche di ‘aria’ (iki 息) di una situazione.
“Se si vuol tagliare velocemente con una spada, la spada non taglia affatto” cita un vecchio adagio giapponese.
E’ il giusto tempo che rende la spada tagliente.
L’uomo ha perso il senso del ritmo perché vive ormai fuori dal ritmo delle stagioni, è diventato sordo al ritmo del proprio corpo e della propria mente.
La nostra pratica è fondata sul rivitalizzare questa percezione del ritmo e, riscoprire il ritmo, è riscoprire le leggi della natura, l’Ordine Cosmico (Dharma).
Il Kata è come una sinfonia. Le pause sono importanti quanto le note, non si tratta di eseguire una sequenza, il ritmo da vita alla sequenza. Un ritmo inadeguato uccide il Kata.
4) Studio e sviluppo dell’energia (Ki 気) e del respiro, con qualità terapeutiche.
Il respiro nel kata è esercitato in molteplici forme.
Dall’intensa circolazione del Sanchin e Tensho, alla ritenzione operata attraverso il respiro noon in alcuni kata superiori, al respiro che accompagna l’applicazione del muchimi (contatto pesante e appiccicoso), al respiro che accompagna le fasi di Chiru no chan chan ovvero le fasi di ‘esplosività elastica’.
In un andare e venire il respiro da il ritmo al Kata.
In particolare i Kata Sanchin e Tensho sono specificamente kata per lo sviluppo energetico.
Si tratta di forme di Chi Kung marziale in cui il respiro, collegato alla postura ed all’atteggiamento mentale, favoriscono l’accumulo e la circolazione dell’energia vitale (Ki 気) lungo i meridiani.
Nel Kata Sanchin, raggiunto un sufficiente livello di esecuzione in cui si padroneggia la chiusura del tanden, la postura ed il respiro, la circolazione del Ki viene visualizzata lungo il canale centrale (Du mei) con un’orientamento circolatorio inverso, in senso antiorario.
Ma anche nei kaishugata l’aspetto energetico non è trascurabile.
Il Kata qualunque sia lo stile, è un contenitore di un certo tipo di energie, ogni gesto che noi facciamo è un contenitore di un certo modo di muovere il corpo, con una certa qualità del movimento.
La concentrazione richiesta all’esecuzione, la postura con il suo tono equilibrato, il respiro… vanno automaticamente a ripristinare e potenziare l’equilibrio energetico del praticante.
L’esecuzione del kata permettendo di entrare in contatto profondo con se stessi nel momento presente, affinata sufficiente sensibilità, permette di percepire chiaramente gli squilibri consentendo di ripristinare l’equilibrio (omeostasi) attraverso l’armonia del gesto gesto e del respiro .
5) Ricerca sensoriale propriocettiva ed esterocettiva ed in ambito emozionale. “La messa in opera del kata ci interroga sull’articolazione tra conscio ed inconscio, rimettendo in causa l’organizzazione dell’attività percettiva quotidiana 2”.
La pratica ci porta a rimettere in discussione la nostra capacità percettiva.
Il Maestro Taisen Deshimaru diceva io non credo ai miei occhi e alle mie orecchie, sottolineando così come l’illusorietà dei sensi non permette di cogliere la realtà nella sua pienezza ed immediatezza, ma la percezione della realtà deve coinvolgere simultaneamente tutti i sensi compresa la mente (nel Buddhismo la mente è uno dei sensi).
Ordinariamente percepiamo la realtà in modo frammentario e ci attacchiamo ad i frammenti che riusciamo a cogliere.
L’altro ieri sono riuscito finalmente a veder un film che mi ha dato H., che stava lì da mesi e non trovavo il tempo di vederlo.
Il film si intitola ‘Memento’ e parla proprio di questo:
il protagonista a causa di un incidente ha perso la memoria a breve termine (poi anche la sua memoria a lungo termine in realtà si rivelerà illusoria) allora in ogni momento deve scrivere delle note, scattare delle istantanee, arriva a tatuarsi sul corpo le sue importanti annotazioni, al fine di non ‘perdere’ la memoria del momento precedente.
Ma questo catturare dei frammenti si rivela alla fine fallimentare.
I frammenti non permetteranno mai di cogliere l’insieme.
Dai frammenti non riuscirà a ricostruire la mutevole e complessa realtà e alla fine, nelle scene finali del film lo si vede chiudere gli occhi e chiedersi se esiste davvero quel mondo al di fuori della sua mente…
Si deve dunque affinare una capacità percettiva che a partire dai sensi trascenda i sensi stessi in una percezione intuitiva della realtà (pensiero hishiryo), ovvero la pura percezione sensoriale prima che la mente calcolatrice intervenga incasellando l’esperienza in una categoria razionale (prima di fare una foto e scriverci su le proprie annotazioni).
L’interno e l’esterno, la propriocezione e l’esterocezione, in qualche modo devono esplodere (Tokitsu parla di tempo esploso) tanto che il limite tra esterno ed interno scompaia e il corpo-mente sia mosso in qualche modo dall’intero Universo.
Esperienza che si fa potentemente durante la pratica dello Zazen e che solo ad alti livelli si raggiunge durante l’esecuzione del Kata.
Il Kata, così come il rito, è rigido nella sua manifestazione, nel senso che non ammette deroghe alla sua esecuzione formale, ma quando vai a interpretarlo nella sua esecuzione, nella sua applicazione, consente alla tua mente di liberarsi in modo globale.
“L’orientamento della psiche nel momento della realizzazione di un kata procede da una tecnica Largamente comune allo Zen e alle arti tradizionali giapponesi. Dietro l’apparenza gestuale di un kata, un lavoro psicologico tende ad allargare e a spostare la profondità e l’apertura del campo di coscienza. E’ così per la postura immobile dello Zazen. La profondità e l’apertura dello stato di coscienza variano secondo l’avanzamento nello Zazen…”3
L’influenza tra Zazen e Kata diventa in questo ambito di grande rilevanza ed efficacia.
Così come nello Zazen si esplora nell’immobilità attraverso una raffinatissima esplorazione, così durante l’esecuzione del Kata si esplora nel movimento. Ma, il feedback che deriva dal vivere entrambe le esperienze permette di comprendere intimamente come movimento ed immobilità siano indissolubili.
Vi è grande movimento, azione, nell’apparente immobilità dello Zazen così come un nucleo immobile deve essere mantenuto nella più impetuosa azione.
Yukio Mishima descrive questa condizione in questo bel brano:
“Lo stemma della famiglia Kokubu, una genziana color oro dalle foglie bilobate, splendeva sulla corazza laccata di nero.
Nella luce del sole al tramonto, che entrava dalle finestre del dojo, il sudore riluceva sul completo blu imbottito da esercitazione di Kokubu Jiro.
I lembi del suo kimono pieghettato permettevano di intravedere cosce giovanili color ambra, così piene di vita e guizzanti da lasciar immaginare il giovane corpo danzante dentro l’uniforme e l’equipaggiamento protettivo.
Tutti i suoi movimenti sembravano emanare dalla calma perfetta, ispirata dall’indaco cupo della sua veste.
Entrando nel dojo lo si notava immediatamente. In mezzo agli altri il suo corpo, e solo il suo, sembrava avvolto da una sorta di immobilità che nasceva dall’essenzialità di ciascuna delle posizioni assunte.
Queste posizioni non facevano mai violenza all’atteggiamento naturale del suo corpo ed erano sempre aggraziate. Per quanto furioso lo scatto, egli vi restava immobile al centro; come la corda di un arco una volta scoccata la freccia, ritornava subito da sé nella posizione iniziale, rilassato e composto.
Il piede sinistro seguiva come un’ombra il destro, e i passi riecheggiavano, sovrapponendosi, proprio come bianche creste di onde si sovrappongono l’una all’altra.” 4
Takuan Osho ha scritto un’illuminante trattato sulla Via della Spada in cui definisce questa mente inamovibile, come la mente che non si ferma su nulla.
Yagyu Munenori (grande Maestro di spada e discepolo di Takuan) scrive:
‘La rimozione delle afflizioni (Klesa: illusioni, condizionamenti, attaccamenti che derivano dalla visione frammentaria della realtà) è necessaria per percepire le intuizioni. Se le afflizioni non vengono eliminate, esse vi domineranno e voi non riuscirete a vedere. E mancando di vedere avrete perduto.
Le ‘afflizioni’ sono malattie della mente, il che significa che la mente si è fissata su una cosa o un’altra…
Vedere con il cuore e con la mente è fondamentale. Solo quando vedete con il cuore e con la mente i vostri occhi vedono davvero. Così, il vedere con gli occhi viene dopo il vedere con il cuore e con la mente. Dopo di ciò potrete guardare con il corpo, con le mani ed i piedi…
Poiché tutte queste malattie sono nella mente per eliminare la malattia non resta che tonificare la mente….
Il guardare le cose con una semplice occhiata senza fissare la mente su di esse è definito essere fermi. Quando la vostra mente indugia sulle cose, vari pensieri analitici prendono forma. Quando ciò non avviene, anche se la mente che stava indugiando si muove, voi sarete fermi “.5
Anche l’aspetto emozionale è fortemente coltivato attraverso l’esecuzione del Kata.
Sin dal primo apprendimento del Kata l’aspetto emozionale si esprime potentemente attraverso il lavoro sulla postura e sul respiro.
Le nostre rigidità, complessi, paure…vengono immediatamente in superficie e sta a noi se decidere di continuare ad ignorarle e a nasconderle attraverso le molteplici strategie che mettiamo in atto durante la vita quotidiana, oppure affrontarle e conoscere finalmente noi stessi innescando così una trasformazione in queste espressioni energetiche.
In qualche modo il Kata ci mette a nudo di fronte a noi stessi e di fronte alla sensibilità del Maestro.
Non possiamo più fingere, e le impalcature del nostro ego cominciano a scricchiolare.
Questo è un vero e proprio shock per molti, una vera terapia d’urto.
La Via delle Arti Marziali è una Via iniziatica.
Ma, come si diceva poc’anzi, se abbiamo il coraggio di rimanere di fronte a noi stessi, qualcosa comincia a trasformarsi.
Nel vedere, forse per la prima volta, inneschiamo il processo trasformativo e curativo.
Alla base di questa ricerca, quel che protegge in questo processo iniziatico, sono umiltà e rispetto.
Solo l’umiltà ed il rispetto possono schiudere il cerchio intorno al piccolo ‘io’ ed aprire le porte ad una piena coscienza vitale, alla possibilità di attingere a piene mani alla profonda saggezza (Buddha natura) insita in ognuno.
Umiltà e rispetto che solo possono scaturire da un esercizio di fede che non detta alcuna condizione.
Non si tratta di una decisione intellettuale.
La pretesa dell’intelletto risulta essere un ostacolo insuperabile sulla Via.
Nelle Arti Marziali il giusto atteggiamento viene prima della decisione. Il Rei no kokoro (sincero spirito di rispetto e gratitudine) viene prima della pretesa.
Karate-Do wa rei ni hajimari, rei ni owaru koto wo wasuruna (il Karate-Do inizia e termina col rispetto e armonia) affermava Funakoshi Sensei.
Questo processo di introspezione continua costantemente per tutta la vita del praticante e, raggiunto un livello di approfondimento e interiorizzazione sufficiente nell’esecuzione del Kata il praticante comincia ad ‘evocare’ aspetti emotivi legati al combattimento che vengono così esperiti e coltivati e permettono di scendere un ulteriore gradino nelle profondità di se stessi.
Inoltre questo esercizio introspettivo e di integrazione sensoriale permette di coltivare una capacità percettiva intuitiva (yomi 読, saper ‘leggere’ la situazione, un uomo capace di intuito profondo è detto: yomi no fukai jin 読みの深い人) determinante nel combattimento e nella vita quotidiana.
Si tratta, in qualche modo, di rivitalizzare un istinto animale che si è atrofizzato nell’uomo a causa del suo stile di vita e di pensiero.
Nei kata si evocano anche caratteristiche del movimento degli animali, a volte con atteggiamento ‘sciamanico’.
Nel nostro stile in particolare la Gru Bianca e la Tigre.
Anche questo evocare le movenze degli animali innesca una processo di rivitalizzazione dell’istinto.
Nel kata Suparinpei, ad esempio, è evidente la presenza della Gru nei movimenti evasivi, leggeri e rapidissimi, come la presenza della Tigre, nelle azioni potenti e radicate.
Il praticante durante quel movimento deve entrare nella pelle della Tigre, serrare la mascella, infuocare lo sguardo…
La sensibilità che ci avverte delle vibrazioni di un pericolo mortale viene chiamata in giapponese satsui o kanzuru 感ずる. L’abilità di trattare con gli altri, di vedere con chiarezza dalla loro prospettiva, è detta Kyokan 共感. Possedere il sesto senso che ci consente di cogliere i problemi o comunque i sentimenti nascosti si chiama dairokkan 第六感. In ciascuno di questi termini si trova il Kanji di Kan (sentire o percepire) 感 .
Kan viene usato dunque per descrivere sentimenti, simpatie e moti dell’animo, piuttosto che per indicare i poteri meramente fisici della percezione.
Anche il metodo pedagogico proprio delle Arti tradizionali è finalizzato a risvegliare questa capacità di ‘cogliere intuitivamente’.
“Il concetto di kan ha una particolare importanza per il Bugeisha. Abituato com’è alla familiarità con le sue armi, è naturalmente portato a estendere la metafora della lama affilata sia ai sensi sia alla mente. La capacità di affinare le facoltà di intuizione è una sensibilità che comincia non appena inizia la sua istruzione tecnica, anche se il Bugeisha potrebbe, in quel momento, non esserne consapevole. Per il fatto che l’insegnamento delle arti Bugei è in gran parte fisico, scarsamente corredato da parole pronunciate o scritte, il Bugeisha deve estendere una sorta di antenna mentale per scoprire ciò che davvero gli viene trasmesso. Il maestro preferisce impartire lezioni empiriche. Può mostrare una mezza dozzina di singole tecniche, senza mai spiegare quale principio abbiano in comune. È compito del suo discepolo fare proprio tale principio attraverso uno sforzo personale, attraverso il kan. Quando il maestro parla, le sue parole sono sempre oblique o enigmatiche. II suo studente, se vuole progredire, deve dedicarsi alla coltivazione delle percezioni che possono recepire le implicazioni celate nelle parole del maestro.
Mentre la loro relazione prosegue, il maestro e lo studente (e uno può ben dimenticare di affinare il kan in circostanze differenti da quelle intensamente personali dove il maestro si trova in comunicazione diretta con il suo allievo) sviluppano un rapporto ancora più elusivo. Basta un solo gesto per esprimere un enorme numero di concetti. Il bugeisha apprende intuitivamente gran parte di ciò che il maestro vuole da lui. Assorbe le nozioni in maniera inconsapevole durante l’allenamento. Perfino nel mezzo di un esercizio vigoroso eseguito a tutta velocità assimila questi messaggi. Si tratta di un processo troppo rapido per l’intelletto, troppo elusivo per qualsiasi elaborazione cerebrale. Lo si può realizzare solo attraverso il kan.
Una volta che ha sperimentato il kan con il suo maestro, il bugeisha può applicarlo ad altre aree dell’esistenza. Può diventare più sensibile al pericolo, ai sentimenti altrui, alle interazioni delle emozioni che si agitano continuamente dentro di lui. Per il bugeisha che possiede un’intuizione acuta del kan, l’interazione con gli altri implica livelli oltre e sotto la normale comunicazione. La sua mente è acuta e gli fornisce uno strumento che può penetrare nelle risorse nascoste di coloro che lo circondano.”6
Watsuji Tetsuro scrive recentemente:
“esiste nella società giapponese una tendenza etnica ad accordare fiducia solo ai fatti colti intuitivamente e trascurare l’apprendimento attraverso la riflessione logica”.
La percezione intuitiva coglie in uno sguardo tutta la realtà di un determinato momento prima che la riflessione logica fissi la realtà in uno schema dejavù e la frammenti perdendone irrimediabilmente il respiro globale.
Si tratta di percepire l’albero nella sua interezza senza essere catturati dalla singola foglia.
“La nozione di temporalità nel combattimento può aiutare a meglio cogliere lo stato di coscienza ricercato nella pratica delle arti marziali e spesso raggiunto nella pratica dello Zen.
Non è un caso se a partire da un certo livello, gli adepti di spada hanno spesso fatto ricorso allo Zen per pervenire ad una integrazione senza incrinature dello spirito e del corpo.
L’elemento che determinerà questa riorganizzazione è la morte.
E’ un’intuizione della morte che viene ricercata.7
Nell’evocare emotivamente l’avversario, l’altro, si evoca la morte che non è più rimossa.
Suzuki Shosan insegna:
“Quando la gente dimentica che dovrà morire e agisce come se fosse immortale, non appreza né utilizza appieno gli anni che passano. Finchè la gente è così, agisce solo per avidità, collera e falsità, discostandosi dai doveri sociali e familiari, non comprendendo l’umana gentilezza, impiegando adulazione e lusinghe, trascurando la famiglia ed il lavoro perdendo il tempo in attività inutili”8
6) Sviluppo dell’atteggiamento mentale, attraverso respiro, sguardo, concentrazione…
Questo punto si ricollega al precedente.
L’atteggiamento mentale è indissolubile dalla postura, dal respiro…
Attraverso il corpo si determina una trasformazione dello spirito.
Lo sguardo va esercitato, raffinato, così come gli altri sensi.
Molti di voi hanno difficoltà a concentrare lo sguardo.
Lo sguardo vaga senza orientamento oppure cade verso terra in un atteggiamento timoroso e sfuggente, o assume una rigidità aggressiva, ulteriore sintomo di fragilità interiore….
Lo sguardo esprime qualità interiori, stati d’animo, e affinando lo sguardo si lavora sull’interiorità.
Ogni gesto nel Dōjō è kata ed è teso a rivitalizzare queste qualità percettive.
La concentrazione è alla base dell’esercizio.
Bisogna però fare attenzione perché in Occidente la concentrazione è spesso immaginata come una lente che concentra i raggi del sole in un punto, escludendo il resto.
Concentrazione è sì focalizzare l’attenzione potentemente su di una cosa ma, questa cosa, è il momento presente che come una circonferenza si estende all’infinito, ed è totalmente inclusivo.
La vera concentrazione non esclude nulla nel suo essere totalmente presente ed aperta.
E’ un’apertura totale non un chiudersi su se stessi.
7) Heiho 兵法, la strategia.
Il kata suggerisce strategie, dissimulazioni, angolazioni di movimento in relazione all’intenzione e all’azione dell’avversario… dalla postura allo sguardo al respiro tutto è oggetto di studio strategico, nel combattimento come nella vita quotidiana.
In Kata di spada troviamo indicazioni di movimento rispetto alla posizione del sole ovvero sul modo di muovere i piedi in relazione alla qualità della superficie…
Tornando al parlare del Kata in generale dobbiamo pensare al Kata come ad una stratificazione di conoscenze.
In un gesto sono condensati spesso molteplici messaggi.
Il gesto come significante produce in tal modo innumerevoli significati che vanno ben oltre l’intenzione del creatore.
I volti dei Maestri che hanno elaborato e vissuto il kata si sovrappongono.
E con questi Maestri dialoghiamo durante l’esecuzione dei Kata e più la nostra pratica si approfondisce più la voce dei Maestri si fa più chiara e suggerisce nuove interpretazioni.
Il kata contiene più di quel che appare a prima vista.
Ogni gesto è un condensato di memoria.
La memoria del movimento originale e di tutte le sue varianti elaborate di generazione in generazione.
Quel che perviene a noi pertanto attraverso il Kata è un insieme di significanti gravido di significati.
Così come nella pratica religiosa il testo sacro non è scritto una volta per tutte ma viene riscritto, riattualizzato costantemente attraverso il rito.
Carne e sangue devono nutrire il testo sacro, così eseguire il kata è ridare vita con il nostro corpo e mente all’intuizione e allo spirito dei Maestri, è riattingere all’antica saggezza (Keiko 稽古: meditare sulle cose antiche).
Ogni gesto nel Dōjō è kata.
Quando varcate la soglia (si entra col piede sinistro ed esce col destro…), quando gestite lo spazio in relazione all’Insegnante ed ai compagni di pratica, in relazione all’orientamento simbolico dello spazio nella sala di pratica, in ogni istante, nel Dōjō, vi è richiesto di aderire a delle forme perché si attivi una complessa rieducazione percettiva.
Quando vi scalzate, disponete le vostre ciabatte e i vostri abiti, fate il saluto ed entrate sul tatami, vi state predisponendo ad una raffinata esplorazione della realtà, voi state conoscendo.
State conoscendo attraverso il vostro corpo, attingendo ad una saggezza originaria che è soffocata da tutta la spazzatura che colma la nostra mente e si riflette nei nostri gesti (è senz’altro più preoccupante l’emergenza spazzatura nella nostra mente, che quella di Napoli).
Il gesto richiesto nel kata è un gesto armonioso, spesso elegante, ma che nel contempo ha un carattere arcaico ed efficace.
Il kata pur essendo un esercizio solitario ha immanente la percezione dell’altro.
L’altro è sempre presente nel nostro Kata.
L’avversario è fronteggiato ad ogni passo, il modello incarnato dal Maestro è costantemente presente.
Questo aspetto fa anche la differenza tra una semplice sequenza codificata di gesti ed un kata.
“l’intensità di questa sensazione varia secondo il tipo di evoluzione tecnica che il kata sottende…
Questo <altro>, la cui immagine può variare, è sempre un modello che guida verso la perfezione.
Per Tesshu quest’immagine era quella del Maestro: una presenza schiacciante, con la quale si identificava pur cercando di vincerlo.
Un ceramista che realizza un vaso, anche secondo la migliore tecnica tradizionale, non per questo esegue un kata. Il suo atto diventa un Kata quando si verifica una concatenazione dinamica tra lui, l’oggetto che modella e l’immagine del movimento del suo Maestro che produce un oggetto immaginato perfetto…”9
Quando la fase di automatizzazione del Kata è superata la pratica del Kata assume la dimensione del Gyō, come in tutte le arti tradizionali giapponesi.
L’aspetto etico viene ad assumere, nell’approfondirsi dell’arte, sempre maggior importanza.
‘La tecnica è l’uomo’.
“per accedere al livello superiore della tecnica bisogna che l’uomo stesso divenga superiore. Le qualità dell’uomo e quella della sua tecnica sono in rapporto dialettico: esse mirano ad un compimento qualitativo”10.
Senza una riorganizzazione della vita quotidiana sulla base dei principi studiati nel Dōjō, senza che la propria vita ne sia ‘contaminata’ determinando una trasformazione qualitativa, la pratica non può approfondirsi oltre un certo livello di base e l’esperienza del Kata rimane superficiale.
Il kata diviene un mondo in cui perdersi per ritrovarsi non più un oggetto da oggettivare.
Per le arti tradizionali giapponesi la perfezione è accessibile all’uomo.
La tecnica, il gesto perfetto (kami waza 神技: tecnica divina) è raggiunta quando l’uomo, attraverso la ripetizione, abbandona se stesso e nella sua azione respira l’intero Universo,.
La mia mano non è più solo la mia mano.
Ecco anche il senso di Kara-te, mano vuota, la mano che scaturisce dal vuoto (della mente).
Quando è libero dall’attaccamento al sé il gesto dell’uomo partecipa alla creazione del mondo e
la perfezione può essere soltanto nel momento, ogni momento ha la sua perfezione in se stesso, non si tratta di una condizione permanente.
Ogni momento abbandonare sé stessi è essere riconosciuti da ogni esistenza (Datsu Raku Shin Jin).
Il Kata è il modello pedagogico, la struttura attorno alla quale la pratica e la trasmissione delle Discipline tradizionali denominate Vie (Dō 道) viene organizzata.
Kata ( 形 ) è comunemente tradotto con: forma, modello, stampo (ed anche modellare, formare). Chi era presente alla mia lezione sul terzo capitolo dello Shūshōgi riconoscerà forse nel carattere Kata un radicale che è presente anche nel carattere Kai ( 戒 ), Precetti, che abbiamo trovato nel titolo del terzo capitolo, Ju Kai Nyui, che rappresenta due mani unite in segno di rispetto (gasshō) che tengono una lancia. In questo caso al carattere che rappresenta le due mani unite in segno di rispetto si aggiunge una linea superiore e quest’insieme rappresenta l’offerta. Il radicale di destra invece rappresenta un pennello.
Il Kata, possiede molte caratteristiche del rito: si svolge in uno spazio ed un tempo determinato, il Kata come il rito è rigido nella sua manifestazione, nel senso che non ammette deroghe alla sua esecuzione formale, coinvolge tutti i sensi (il rito è performance multimediale), ha un carattere ludico-simbolico, la profondità del Kata è difficilmente apprezzabile dall’esterno (se non per chi ha fatto profonda esperienza di quella percezione) perché nel rito come nel kata o si è dentro o si è fuori, il kata, così come il rito, permette di riaccedere all’evento fondante, alla percezione primigenia, ancestrale, primordiale.
Nell’esecuzione del kata, proprio come nel rito, mettiamo in atto una ‘vivente opera d’arte’.
Come nello shōdō, la calligrafia su carta di riso, il gesto è decisivo.
Dipingendo sulla carta di riso, il pensiero e l’esitazione sono fatali, così eseguire un kata è come dipingere con il proprio corpo-mente nello spazio-tempo, dipingere un mandala che immediatamente si cancella ma che lascia un’impronta nei corpi che vivono, di volta in volta, in un tempo differente.
Ogni volta che rieseguiamo il kata dobbiamo riorganizzare la memoria in relazione al momento presente costituito da un corpo-mente in continua trasformazione, dalle percezioni, sensazioni, dallo spazio/tempo.
Non può mai trattarsi di una ripetizione identica perché è un’illusione pensare che quell’io (illusorio e composito) possa eseguire due volte lo stesso kata…
Inoltre, nella tensione verso la perfezione il kata implica un continuo, inesorabile dinamismo interno.
Il carattere esprime in senso dell’offerta e questo è un punto, a mio parere, determinante.
Cos’è che offriamo eseguendo un kata ?
Offriamo noi stessi, quel che siamo in quel momento preciso: la nostra forza e la nostra fragilità, la salute come la malattia, tutta la nostra piena umanità.
Pur esprimendo qualità fisiche quali forza, velocità, equilibrio…non ha nulla a che vedere con una prestazione atletica.
Il Kata di un anziano Maestro, tremante sulle sue gambe non può essere apprezzato secondo i canoni dello sport.
Ricordo che nel 2002 al termine del mio esame a Godan, ad Okinawa, nel Dōjō di Higaonna Sensei, An’ichi Miyagi Sensei, che era in commissione d’esame, ci volle offrire la sua esecuzione del Kata Seiyunchin. Era uscito dall’ospedale da pochi giorni e in camicia e pantaloni si è alzato dalla sedia ed ha eseguito il Kata…è stato un momento di intensità straordinaria.
Il Maestro, avrebbe potuto fare un discorso per manifestare la sua soddisfazione, invece si è alzato e ha eseguito un Kata. Ci ha offerto il suo cuore.
Ora, per apprezzare appieno il valore e l’importanza del Kata, parlando in particolare del nostro stile, il Goju-Ryu di Okinawa, dobbiamo partire dal presupposto che il kata ha varie chiavi di interpretazione e di esercizio.
Chiavi che possono essere, nell’uno o nell’altro kata, più o meno presenti e rilevanti:
- Automatizzazione e perfezionamento di gesti tecnici.
- Studio e perfezionamento della postura/e in relazione allo spazio ed al tempo
- (Ma ai 間 / Hyōshi 拍子 ).
- Studio del ritmo, Hyōshi 拍子.
- Studio e sviluppo dell’energia (Ki 気) e del respiro, con qualità terapeutiche.
- Ricerca e affinamento sensoriale propriocettivo ed esterocettivo e ricerca emozionale.
- Sviluppo dell’atteggiamento mentale, attraverso respiro, sguardo, concentrazione…
- Strategia ,Heiho 兵法 .
Poi possiamo suddividere i Kata in Kata di formazione e Kata applicativi, anche se a volte rimane difficile decidere se inserire alcuni kata nell’una o l’altra categoria e stabilire dei confini netti.
Sakiyama Sogen oggi famoso Maestro Zen Rinzai in gioventù discepolo del fondatore del Goju-Ryu Chojun Miyagi Sensei mentre pratica Sanchin |
Kata Sanchin e Kata Tensho.
Higaonna Sensei ha affermato: “ allenando costantemente Sanchin e Tensho, si coglie ‘kukuchi’ l’essenza, la chiave, di tutti gli altri kata… quando si vede eseguire un kata superiore si capisce chiaramente se colui che lo esegue allena costantemente Sanchin e Tensho.
Senza cogliere il ‘kukuchi’ attraverso Sanchin, il kata è vuoto, magari ha anche una bella forma, ma è ginnastica, non Karate-Do”1
Il nome Heishugata o Heishu Kata sta a significare che il tanden rimane sempre chiuso durante tutta l’esecuzione del Kata.
Ma in entrambi i Kata ci sono elementi tecnici direttamente applicabili al combattimento, in particolare nel Tensho.
L’altra categoria di Kata del Goju-Ryu sono i Kaishugata o Kaishu Kata.
Di questa categoria fanno parte:
- Gekisai dai ichi
- Gekisai dai ni
- Saifa
- Seiyunchin
- Shisochin
- Sanseru
- Sepai
- Kururunfa
- Sesan
- Suparinpei.
Così anche in molti kaishugata sono presenti elementi formativi.
La definizione Kaishugata da ad intendere che durante l’esecuzione del Kata il tanden si apre e si chiude in relazione al ritmo, al respiro e all’applicazione.
Vediamo di analizzare i singoli punti elencati.
1) automatizzazione e perfezionamento del gesto tecnico.
Il Kata viene allenato come un’unica sequenza continua e in tal modo si allenano alcune specifiche qualità. Ma il Kata viene esercitato anche ripetendo e perfezionando le singole sequenze.
La ripetizione delle singole azioni permette di raffinare e perfezionare qualità di velocità, equilibrio, potenza… necessarie all’efficace applicazione delle tecniche al combattimento.
Si varia la simmetria (versione omote e ura) dell’esecuzione, il ritmo, la direzione.
Attraverso la ripetizione si lascia che l’intuizione ci porti ad elaborare nuove interpretazioni del gesto.
A volte all’ennesima ripetizione, che, come tutte le ripetizioni può sembrare maniacale, apparentemente incomprensibile, sterile, scaturisce una nuova intuizione, nuove sensazioni, che aprono un’inatteso orizzonte.
L’allenamento delle singole azioni e sequenze ha come naturale integrazione e conseguenza l’allenamento del Bunkai con un partner (bunkai significa proprio, da Bunkai suru 分解する, scomporre, smontare, il Kata).
2) Studio e perfezionamento della postura/e in relazione allo spazio ed al tempo .
La postura è il leit motive, il fondamento dello studio del Kata.
La postura è strettamente collegata al respiro ed all’atteggiamento mentale.
Rettificando la postura si arriva a rettificare la mente e a permettere all’energia di fluire potentemente.
La postura corretta integra il corretto ritmo/profondità del respiro, la verticalità della spina dorsale e del tratto cervicale, lo sguardo e, soprattutto, stabilisce un centro all’azione attraverso la percezione e padronanza del tanden.
La postura è indissolubile dalla sua relazione con lo spazio (ma 間 ) e con il tempo e ritmo (hyōshi 拍子).
La postura è corretta nella sua relazione con la specifica situazione spazio/temporale, non esiste una postura corretta a priori, pur conservando alcuni principi fondamentali questa deve essere elastica ed adattabile.
La postura fisica è sempre anche una postura mentale.
E’ non irrigidirsi, non bloccarsi in nessuna postura rigida.
Tutta la confusione del mondo deriva da questo ‘assumere una posizione rigida nei confronti della realtà’.
La postura come detto integra molteplici aspetti fisici e mentali ed è questo che non ha capito una certa medicina ortopedica che ha pensato di correggere i paramorfismi intervenendo solo sulla struttura scheletrica e muscolare, come dire, intervenendo dall’esterno.
Mentre si deve trattare di una rieducazione globale che faccia sì che ognuno trovi la sua propria postura in base alle proprie caratteristiche.
3) Studio del ritmo, Hyoshi 拍子.
Il ritmo è il corpo sottile di ogni energia.
Ritmo significa anche ordine.
Il ritmo è presente in ogni ambito della vita, dal circolare del sangue, al ritmo delle stagioni, dal respiro alla musica, al combattimento in cui la padronanza del ritmo fa la differenza tra la vittoria e la sconfitta.
Così nella vita quotidiana conoscere il ritmo di ogni situazione è determinante.
I giapponesi parlano anche di ‘aria’ (iki 息) di una situazione.
“Se si vuol tagliare velocemente con una spada, la spada non taglia affatto” cita un vecchio adagio giapponese.
E’ il giusto tempo che rende la spada tagliente.
L’uomo ha perso il senso del ritmo perché vive ormai fuori dal ritmo delle stagioni, è diventato sordo al ritmo del proprio corpo e della propria mente.
La nostra pratica è fondata sul rivitalizzare questa percezione del ritmo e, riscoprire il ritmo, è riscoprire le leggi della natura, l’Ordine Cosmico (Dharma).
Il Kata è come una sinfonia. Le pause sono importanti quanto le note, non si tratta di eseguire una sequenza, il ritmo da vita alla sequenza. Un ritmo inadeguato uccide il Kata.
4) Studio e sviluppo dell’energia (Ki 気) e del respiro, con qualità terapeutiche.
Il respiro nel kata è esercitato in molteplici forme.
Dall’intensa circolazione del Sanchin e Tensho, alla ritenzione operata attraverso il respiro noon in alcuni kata superiori, al respiro che accompagna l’applicazione del muchimi (contatto pesante e appiccicoso), al respiro che accompagna le fasi di Chiru no chan chan ovvero le fasi di ‘esplosività elastica’.
In un andare e venire il respiro da il ritmo al Kata.
In particolare i Kata Sanchin e Tensho sono specificamente kata per lo sviluppo energetico.
Si tratta di forme di Chi Kung marziale in cui il respiro, collegato alla postura ed all’atteggiamento mentale, favoriscono l’accumulo e la circolazione dell’energia vitale (Ki 気) lungo i meridiani.
Nel Kata Sanchin, raggiunto un sufficiente livello di esecuzione in cui si padroneggia la chiusura del tanden, la postura ed il respiro, la circolazione del Ki viene visualizzata lungo il canale centrale (Du mei) con un’orientamento circolatorio inverso, in senso antiorario.
Ma anche nei kaishugata l’aspetto energetico non è trascurabile.
Il Kata qualunque sia lo stile, è un contenitore di un certo tipo di energie, ogni gesto che noi facciamo è un contenitore di un certo modo di muovere il corpo, con una certa qualità del movimento.
La concentrazione richiesta all’esecuzione, la postura con il suo tono equilibrato, il respiro… vanno automaticamente a ripristinare e potenziare l’equilibrio energetico del praticante.
L’esecuzione del kata permettendo di entrare in contatto profondo con se stessi nel momento presente, affinata sufficiente sensibilità, permette di percepire chiaramente gli squilibri consentendo di ripristinare l’equilibrio (omeostasi) attraverso l’armonia del gesto gesto e del respiro .
5) Ricerca sensoriale propriocettiva ed esterocettiva ed in ambito emozionale. “La messa in opera del kata ci interroga sull’articolazione tra conscio ed inconscio, rimettendo in causa l’organizzazione dell’attività percettiva quotidiana 2”.
La pratica ci porta a rimettere in discussione la nostra capacità percettiva.
Il Maestro Taisen Deshimaru diceva io non credo ai miei occhi e alle mie orecchie, sottolineando così come l’illusorietà dei sensi non permette di cogliere la realtà nella sua pienezza ed immediatezza, ma la percezione della realtà deve coinvolgere simultaneamente tutti i sensi compresa la mente (nel Buddhismo la mente è uno dei sensi).
Ordinariamente percepiamo la realtà in modo frammentario e ci attacchiamo ad i frammenti che riusciamo a cogliere.
L’altro ieri sono riuscito finalmente a veder un film che mi ha dato H., che stava lì da mesi e non trovavo il tempo di vederlo.
Il film si intitola ‘Memento’ e parla proprio di questo:
il protagonista a causa di un incidente ha perso la memoria a breve termine (poi anche la sua memoria a lungo termine in realtà si rivelerà illusoria) allora in ogni momento deve scrivere delle note, scattare delle istantanee, arriva a tatuarsi sul corpo le sue importanti annotazioni, al fine di non ‘perdere’ la memoria del momento precedente.
Ma questo catturare dei frammenti si rivela alla fine fallimentare.
I frammenti non permetteranno mai di cogliere l’insieme.
Dai frammenti non riuscirà a ricostruire la mutevole e complessa realtà e alla fine, nelle scene finali del film lo si vede chiudere gli occhi e chiedersi se esiste davvero quel mondo al di fuori della sua mente…
Si deve dunque affinare una capacità percettiva che a partire dai sensi trascenda i sensi stessi in una percezione intuitiva della realtà (pensiero hishiryo), ovvero la pura percezione sensoriale prima che la mente calcolatrice intervenga incasellando l’esperienza in una categoria razionale (prima di fare una foto e scriverci su le proprie annotazioni).
L’interno e l’esterno, la propriocezione e l’esterocezione, in qualche modo devono esplodere (Tokitsu parla di tempo esploso) tanto che il limite tra esterno ed interno scompaia e il corpo-mente sia mosso in qualche modo dall’intero Universo.
Esperienza che si fa potentemente durante la pratica dello Zazen e che solo ad alti livelli si raggiunge durante l’esecuzione del Kata.
Il Kata, così come il rito, è rigido nella sua manifestazione, nel senso che non ammette deroghe alla sua esecuzione formale, ma quando vai a interpretarlo nella sua esecuzione, nella sua applicazione, consente alla tua mente di liberarsi in modo globale.
“L’orientamento della psiche nel momento della realizzazione di un kata procede da una tecnica Largamente comune allo Zen e alle arti tradizionali giapponesi. Dietro l’apparenza gestuale di un kata, un lavoro psicologico tende ad allargare e a spostare la profondità e l’apertura del campo di coscienza. E’ così per la postura immobile dello Zazen. La profondità e l’apertura dello stato di coscienza variano secondo l’avanzamento nello Zazen…”3
L’influenza tra Zazen e Kata diventa in questo ambito di grande rilevanza ed efficacia.
Così come nello Zazen si esplora nell’immobilità attraverso una raffinatissima esplorazione, così durante l’esecuzione del Kata si esplora nel movimento. Ma, il feedback che deriva dal vivere entrambe le esperienze permette di comprendere intimamente come movimento ed immobilità siano indissolubili.
Vi è grande movimento, azione, nell’apparente immobilità dello Zazen così come un nucleo immobile deve essere mantenuto nella più impetuosa azione.
Yukio Mishima descrive questa condizione in questo bel brano:
“Lo stemma della famiglia Kokubu, una genziana color oro dalle foglie bilobate, splendeva sulla corazza laccata di nero.
Nella luce del sole al tramonto, che entrava dalle finestre del dojo, il sudore riluceva sul completo blu imbottito da esercitazione di Kokubu Jiro.
I lembi del suo kimono pieghettato permettevano di intravedere cosce giovanili color ambra, così piene di vita e guizzanti da lasciar immaginare il giovane corpo danzante dentro l’uniforme e l’equipaggiamento protettivo.
Tutti i suoi movimenti sembravano emanare dalla calma perfetta, ispirata dall’indaco cupo della sua veste.
Entrando nel dojo lo si notava immediatamente. In mezzo agli altri il suo corpo, e solo il suo, sembrava avvolto da una sorta di immobilità che nasceva dall’essenzialità di ciascuna delle posizioni assunte.
Queste posizioni non facevano mai violenza all’atteggiamento naturale del suo corpo ed erano sempre aggraziate. Per quanto furioso lo scatto, egli vi restava immobile al centro; come la corda di un arco una volta scoccata la freccia, ritornava subito da sé nella posizione iniziale, rilassato e composto.
Il piede sinistro seguiva come un’ombra il destro, e i passi riecheggiavano, sovrapponendosi, proprio come bianche creste di onde si sovrappongono l’una all’altra.” 4
Takuan Osho ha scritto un’illuminante trattato sulla Via della Spada in cui definisce questa mente inamovibile, come la mente che non si ferma su nulla.
Yagyu Munenori (grande Maestro di spada e discepolo di Takuan) scrive:
‘La rimozione delle afflizioni (Klesa: illusioni, condizionamenti, attaccamenti che derivano dalla visione frammentaria della realtà) è necessaria per percepire le intuizioni. Se le afflizioni non vengono eliminate, esse vi domineranno e voi non riuscirete a vedere. E mancando di vedere avrete perduto.
Le ‘afflizioni’ sono malattie della mente, il che significa che la mente si è fissata su una cosa o un’altra…
Vedere con il cuore e con la mente è fondamentale. Solo quando vedete con il cuore e con la mente i vostri occhi vedono davvero. Così, il vedere con gli occhi viene dopo il vedere con il cuore e con la mente. Dopo di ciò potrete guardare con il corpo, con le mani ed i piedi…
Poiché tutte queste malattie sono nella mente per eliminare la malattia non resta che tonificare la mente….
Il guardare le cose con una semplice occhiata senza fissare la mente su di esse è definito essere fermi. Quando la vostra mente indugia sulle cose, vari pensieri analitici prendono forma. Quando ciò non avviene, anche se la mente che stava indugiando si muove, voi sarete fermi “.5
Anche l’aspetto emozionale è fortemente coltivato attraverso l’esecuzione del Kata.
Sin dal primo apprendimento del Kata l’aspetto emozionale si esprime potentemente attraverso il lavoro sulla postura e sul respiro.
Le nostre rigidità, complessi, paure…vengono immediatamente in superficie e sta a noi se decidere di continuare ad ignorarle e a nasconderle attraverso le molteplici strategie che mettiamo in atto durante la vita quotidiana, oppure affrontarle e conoscere finalmente noi stessi innescando così una trasformazione in queste espressioni energetiche.
In qualche modo il Kata ci mette a nudo di fronte a noi stessi e di fronte alla sensibilità del Maestro.
Non possiamo più fingere, e le impalcature del nostro ego cominciano a scricchiolare.
Questo è un vero e proprio shock per molti, una vera terapia d’urto.
La Via delle Arti Marziali è una Via iniziatica.
Ma, come si diceva poc’anzi, se abbiamo il coraggio di rimanere di fronte a noi stessi, qualcosa comincia a trasformarsi.
Nel vedere, forse per la prima volta, inneschiamo il processo trasformativo e curativo.
Alla base di questa ricerca, quel che protegge in questo processo iniziatico, sono umiltà e rispetto.
Solo l’umiltà ed il rispetto possono schiudere il cerchio intorno al piccolo ‘io’ ed aprire le porte ad una piena coscienza vitale, alla possibilità di attingere a piene mani alla profonda saggezza (Buddha natura) insita in ognuno.
Umiltà e rispetto che solo possono scaturire da un esercizio di fede che non detta alcuna condizione.
Non si tratta di una decisione intellettuale.
La pretesa dell’intelletto risulta essere un ostacolo insuperabile sulla Via.
Nelle Arti Marziali il giusto atteggiamento viene prima della decisione. Il Rei no kokoro (sincero spirito di rispetto e gratitudine) viene prima della pretesa.
Karate-Do wa rei ni hajimari, rei ni owaru koto wo wasuruna (il Karate-Do inizia e termina col rispetto e armonia) affermava Funakoshi Sensei.
Questo processo di introspezione continua costantemente per tutta la vita del praticante e, raggiunto un livello di approfondimento e interiorizzazione sufficiente nell’esecuzione del Kata il praticante comincia ad ‘evocare’ aspetti emotivi legati al combattimento che vengono così esperiti e coltivati e permettono di scendere un ulteriore gradino nelle profondità di se stessi.
Inoltre questo esercizio introspettivo e di integrazione sensoriale permette di coltivare una capacità percettiva intuitiva (yomi 読, saper ‘leggere’ la situazione, un uomo capace di intuito profondo è detto: yomi no fukai jin 読みの深い人) determinante nel combattimento e nella vita quotidiana.
Si tratta, in qualche modo, di rivitalizzare un istinto animale che si è atrofizzato nell’uomo a causa del suo stile di vita e di pensiero.
Nei kata si evocano anche caratteristiche del movimento degli animali, a volte con atteggiamento ‘sciamanico’.
Nel nostro stile in particolare la Gru Bianca e la Tigre.
Anche questo evocare le movenze degli animali innesca una processo di rivitalizzazione dell’istinto.
Nel kata Suparinpei, ad esempio, è evidente la presenza della Gru nei movimenti evasivi, leggeri e rapidissimi, come la presenza della Tigre, nelle azioni potenti e radicate.
Il praticante durante quel movimento deve entrare nella pelle della Tigre, serrare la mascella, infuocare lo sguardo…
La sensibilità che ci avverte delle vibrazioni di un pericolo mortale viene chiamata in giapponese satsui o kanzuru 感ずる. L’abilità di trattare con gli altri, di vedere con chiarezza dalla loro prospettiva, è detta Kyokan 共感. Possedere il sesto senso che ci consente di cogliere i problemi o comunque i sentimenti nascosti si chiama dairokkan 第六感. In ciascuno di questi termini si trova il Kanji di Kan (sentire o percepire) 感 .
Kan viene usato dunque per descrivere sentimenti, simpatie e moti dell’animo, piuttosto che per indicare i poteri meramente fisici della percezione.
Anche il metodo pedagogico proprio delle Arti tradizionali è finalizzato a risvegliare questa capacità di ‘cogliere intuitivamente’.
“Il concetto di kan ha una particolare importanza per il Bugeisha. Abituato com’è alla familiarità con le sue armi, è naturalmente portato a estendere la metafora della lama affilata sia ai sensi sia alla mente. La capacità di affinare le facoltà di intuizione è una sensibilità che comincia non appena inizia la sua istruzione tecnica, anche se il Bugeisha potrebbe, in quel momento, non esserne consapevole. Per il fatto che l’insegnamento delle arti Bugei è in gran parte fisico, scarsamente corredato da parole pronunciate o scritte, il Bugeisha deve estendere una sorta di antenna mentale per scoprire ciò che davvero gli viene trasmesso. Il maestro preferisce impartire lezioni empiriche. Può mostrare una mezza dozzina di singole tecniche, senza mai spiegare quale principio abbiano in comune. È compito del suo discepolo fare proprio tale principio attraverso uno sforzo personale, attraverso il kan. Quando il maestro parla, le sue parole sono sempre oblique o enigmatiche. II suo studente, se vuole progredire, deve dedicarsi alla coltivazione delle percezioni che possono recepire le implicazioni celate nelle parole del maestro.
Mentre la loro relazione prosegue, il maestro e lo studente (e uno può ben dimenticare di affinare il kan in circostanze differenti da quelle intensamente personali dove il maestro si trova in comunicazione diretta con il suo allievo) sviluppano un rapporto ancora più elusivo. Basta un solo gesto per esprimere un enorme numero di concetti. Il bugeisha apprende intuitivamente gran parte di ciò che il maestro vuole da lui. Assorbe le nozioni in maniera inconsapevole durante l’allenamento. Perfino nel mezzo di un esercizio vigoroso eseguito a tutta velocità assimila questi messaggi. Si tratta di un processo troppo rapido per l’intelletto, troppo elusivo per qualsiasi elaborazione cerebrale. Lo si può realizzare solo attraverso il kan.
Una volta che ha sperimentato il kan con il suo maestro, il bugeisha può applicarlo ad altre aree dell’esistenza. Può diventare più sensibile al pericolo, ai sentimenti altrui, alle interazioni delle emozioni che si agitano continuamente dentro di lui. Per il bugeisha che possiede un’intuizione acuta del kan, l’interazione con gli altri implica livelli oltre e sotto la normale comunicazione. La sua mente è acuta e gli fornisce uno strumento che può penetrare nelle risorse nascoste di coloro che lo circondano.”6
Watsuji Tetsuro scrive recentemente:
“esiste nella società giapponese una tendenza etnica ad accordare fiducia solo ai fatti colti intuitivamente e trascurare l’apprendimento attraverso la riflessione logica”.
La percezione intuitiva coglie in uno sguardo tutta la realtà di un determinato momento prima che la riflessione logica fissi la realtà in uno schema dejavù e la frammenti perdendone irrimediabilmente il respiro globale.
Si tratta di percepire l’albero nella sua interezza senza essere catturati dalla singola foglia.
“La nozione di temporalità nel combattimento può aiutare a meglio cogliere lo stato di coscienza ricercato nella pratica delle arti marziali e spesso raggiunto nella pratica dello Zen.
Non è un caso se a partire da un certo livello, gli adepti di spada hanno spesso fatto ricorso allo Zen per pervenire ad una integrazione senza incrinature dello spirito e del corpo.
L’elemento che determinerà questa riorganizzazione è la morte.
E’ un’intuizione della morte che viene ricercata.7
Nell’evocare emotivamente l’avversario, l’altro, si evoca la morte che non è più rimossa.
Suzuki Shosan insegna:
“Quando la gente dimentica che dovrà morire e agisce come se fosse immortale, non appreza né utilizza appieno gli anni che passano. Finchè la gente è così, agisce solo per avidità, collera e falsità, discostandosi dai doveri sociali e familiari, non comprendendo l’umana gentilezza, impiegando adulazione e lusinghe, trascurando la famiglia ed il lavoro perdendo il tempo in attività inutili”8
6) Sviluppo dell’atteggiamento mentale, attraverso respiro, sguardo, concentrazione…
Questo punto si ricollega al precedente.
L’atteggiamento mentale è indissolubile dalla postura, dal respiro…
Attraverso il corpo si determina una trasformazione dello spirito.
Lo sguardo va esercitato, raffinato, così come gli altri sensi.
Molti di voi hanno difficoltà a concentrare lo sguardo.
Lo sguardo vaga senza orientamento oppure cade verso terra in un atteggiamento timoroso e sfuggente, o assume una rigidità aggressiva, ulteriore sintomo di fragilità interiore….
Lo sguardo esprime qualità interiori, stati d’animo, e affinando lo sguardo si lavora sull’interiorità.
Ogni gesto nel Dōjō è kata ed è teso a rivitalizzare queste qualità percettive.
La concentrazione è alla base dell’esercizio.
Bisogna però fare attenzione perché in Occidente la concentrazione è spesso immaginata come una lente che concentra i raggi del sole in un punto, escludendo il resto.
Concentrazione è sì focalizzare l’attenzione potentemente su di una cosa ma, questa cosa, è il momento presente che come una circonferenza si estende all’infinito, ed è totalmente inclusivo.
La vera concentrazione non esclude nulla nel suo essere totalmente presente ed aperta.
E’ un’apertura totale non un chiudersi su se stessi.
7) Heiho 兵法, la strategia.
Il kata suggerisce strategie, dissimulazioni, angolazioni di movimento in relazione all’intenzione e all’azione dell’avversario… dalla postura allo sguardo al respiro tutto è oggetto di studio strategico, nel combattimento come nella vita quotidiana.
In Kata di spada troviamo indicazioni di movimento rispetto alla posizione del sole ovvero sul modo di muovere i piedi in relazione alla qualità della superficie…
Tornando al parlare del Kata in generale dobbiamo pensare al Kata come ad una stratificazione di conoscenze.
In un gesto sono condensati spesso molteplici messaggi.
Il gesto come significante produce in tal modo innumerevoli significati che vanno ben oltre l’intenzione del creatore.
I volti dei Maestri che hanno elaborato e vissuto il kata si sovrappongono.
E con questi Maestri dialoghiamo durante l’esecuzione dei Kata e più la nostra pratica si approfondisce più la voce dei Maestri si fa più chiara e suggerisce nuove interpretazioni.
Il kata contiene più di quel che appare a prima vista.
Ogni gesto è un condensato di memoria.
La memoria del movimento originale e di tutte le sue varianti elaborate di generazione in generazione.
Quel che perviene a noi pertanto attraverso il Kata è un insieme di significanti gravido di significati.
Così come nella pratica religiosa il testo sacro non è scritto una volta per tutte ma viene riscritto, riattualizzato costantemente attraverso il rito.
Carne e sangue devono nutrire il testo sacro, così eseguire il kata è ridare vita con il nostro corpo e mente all’intuizione e allo spirito dei Maestri, è riattingere all’antica saggezza (Keiko 稽古: meditare sulle cose antiche).
Ogni gesto nel Dōjō è kata.
Quando varcate la soglia (si entra col piede sinistro ed esce col destro…), quando gestite lo spazio in relazione all’Insegnante ed ai compagni di pratica, in relazione all’orientamento simbolico dello spazio nella sala di pratica, in ogni istante, nel Dōjō, vi è richiesto di aderire a delle forme perché si attivi una complessa rieducazione percettiva.
Quando vi scalzate, disponete le vostre ciabatte e i vostri abiti, fate il saluto ed entrate sul tatami, vi state predisponendo ad una raffinata esplorazione della realtà, voi state conoscendo.
State conoscendo attraverso il vostro corpo, attingendo ad una saggezza originaria che è soffocata da tutta la spazzatura che colma la nostra mente e si riflette nei nostri gesti (è senz’altro più preoccupante l’emergenza spazzatura nella nostra mente, che quella di Napoli).
Il gesto richiesto nel kata è un gesto armonioso, spesso elegante, ma che nel contempo ha un carattere arcaico ed efficace.
Il kata pur essendo un esercizio solitario ha immanente la percezione dell’altro.
L’altro è sempre presente nel nostro Kata.
L’avversario è fronteggiato ad ogni passo, il modello incarnato dal Maestro è costantemente presente.
Questo aspetto fa anche la differenza tra una semplice sequenza codificata di gesti ed un kata.
“l’intensità di questa sensazione varia secondo il tipo di evoluzione tecnica che il kata sottende…
Questo <altro>, la cui immagine può variare, è sempre un modello che guida verso la perfezione.
Per Tesshu quest’immagine era quella del Maestro: una presenza schiacciante, con la quale si identificava pur cercando di vincerlo.
Un ceramista che realizza un vaso, anche secondo la migliore tecnica tradizionale, non per questo esegue un kata. Il suo atto diventa un Kata quando si verifica una concatenazione dinamica tra lui, l’oggetto che modella e l’immagine del movimento del suo Maestro che produce un oggetto immaginato perfetto…”9
Quando la fase di automatizzazione del Kata è superata la pratica del Kata assume la dimensione del Gyō, come in tutte le arti tradizionali giapponesi.
L’aspetto etico viene ad assumere, nell’approfondirsi dell’arte, sempre maggior importanza.
‘La tecnica è l’uomo’.
“per accedere al livello superiore della tecnica bisogna che l’uomo stesso divenga superiore. Le qualità dell’uomo e quella della sua tecnica sono in rapporto dialettico: esse mirano ad un compimento qualitativo”10.
Senza una riorganizzazione della vita quotidiana sulla base dei principi studiati nel Dōjō, senza che la propria vita ne sia ‘contaminata’ determinando una trasformazione qualitativa, la pratica non può approfondirsi oltre un certo livello di base e l’esperienza del Kata rimane superficiale.
Il kata diviene un mondo in cui perdersi per ritrovarsi non più un oggetto da oggettivare.
Per le arti tradizionali giapponesi la perfezione è accessibile all’uomo.
La tecnica, il gesto perfetto (kami waza 神技: tecnica divina) è raggiunta quando l’uomo, attraverso la ripetizione, abbandona se stesso e nella sua azione respira l’intero Universo,.
La mia mano non è più solo la mia mano.
Ecco anche il senso di Kara-te, mano vuota, la mano che scaturisce dal vuoto (della mente).
Quando è libero dall’attaccamento al sé il gesto dell’uomo partecipa alla creazione del mondo e
la perfezione può essere soltanto nel momento, ogni momento ha la sua perfezione in se stesso, non si tratta di una condizione permanente.
Ogni momento abbandonare sé stessi è essere riconosciuti da ogni esistenza (Datsu Raku Shin Jin).
Note
- Note personali dell’Autore
- K.Tokitsu, Kata, Luni editrice, 2002
- K.Tokitsu, Kata, Luni editrice, 2002
- Y.Mishima, Atti di Adorazione, edizioni
- T.Cleary, L’Arte Giapponese della Guerra, oscar mondadori, 1991
- D.Lowry, Lo Spirito delle Arti Marziali, Mondadori Editore,1995
- K.Tokitsu, Kata, Luni editrice, 2002
- T.Cleary, L’Arte Giapponese della Guerra, oscar mondadori, 1991
- K.Tokitsu, Kata, pag.87/88, edizioni Luni editrice, 2002
- K.Tokitsu, Kata, pag.87/88, edizioni Luni editrice, 2002
© Tora Kan Dōjō
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