venerdì 16 ottobre 2015

Il paradiso e l'inferno




di Emilio Chelini

Mi è capitato di entrare in una chiesa, di queste moderne, per un funerale. Di fronte a me, alla destra dell’altare, era impossibile non notare un dipinto fuori misura, che occupava un terzo dell’intera paretona in cemento. Ritraeva la vita e le opere del Santo cui la Chiesa è dedicata. Nonostante molti mostrassero apprezzamento per quest’opera, a me quei tratti non dicevano nulla. Inseriti in un contesto architettonico cemento e legno, non riuscivano proprio a regalarmi calore. Per niente aiutati in questo da due finestrone triangolari, dietro l’altare, che si aprivano su un panorama desolato. A completare il quadro d’insieme, per i restanti due terzi della grande parete posta dietro l’altare un enorme muro bianco, che conteneva il tabernacolo.
Questo bianco assoluto ha pian piano catturato la mia attenzione durante la funzione. Era un bianco con un grado di calore, uniforme, ben steso e lavorato. Ai miei occhi la capacità dell’artigiano che aveva saputo stenderlo così perfettamente sembrava nettamente superiore a quella dell’artista del dipinto. La vita del Santo, il mistero della santità perdevano nettamente nel confronto con l’abile lavoro dell’imbianchino.
Non so se vi è mai capitato di modificare qualche foto operando sulla regolazione della luminosità e del contrasto, o sull’intensità dei colori. Quell’enorme parete bianca stava diventando nella mia mente una stampa, o una visualizzazione, di una foto, portata al massimo grado di luminosità. Un nulla ripieno di luce. Uno sfondo, inteso come condizione di possibilità di qualsiasi tratteggio. Il luogo da dove nasce il segno. Facciamo un esperimento mentale. Pensate di giocare con qualche app o programma di ritocco fotografico e di portare piano piano alla luce un’immagine inizialmente bruciata dal bianco. Dallo schermo bianco emergerà gradualmente un segno, un ritratto, una composizione. Unica e differente da qualsiasi altra. Come dal silenzio nasce la musica. Dalla quiete il movimento. Nella musica l’insieme delle note armoniche o dissonanti, il ritmo del loro susseguirsi non è altro che un balletto, un contrappunto del suono con il silenzio. Così come i quadri i disegni, i segni, le fotografie non sono altro che un gioco di luci, colori, riflessi e oscurità. Riportare la raffigurazione di una vita al suo bianco originario è riportarla a casa, dove tutto è possibile.
Anche quando eseguiamo un kata, dall’insieme dei movimenti possibili stiamo scegliendo dei gesti efficaci, marziali, che la storia e la tradizione ci hanno tramandato; un insieme di gesti e movimenti codificati, selezionati e limati con cura che rappresentano l'essenza, l’espressione dello spirito del movimento marziale legato ad uno stile. Delle molte possibilità, l’una che abbiamo scelto, o che ci ha scelto.
Sensei Morio Higaonna
Non dimentichiamo che noi abbiamo la fortuna di attingere alla vita e allo studio di un uomo eccezionale,
il Maestro Morio Higaonna che ha fatto della sua passione una vita, Tesoro Nazionale Vivente (titolo concesso in Giappone volto a preservare come fossero monumenti persone portatrici di valori culturali intangibili). Dall’incontro del Maestro Paolo Taigō Spongia con la tradizione del karatedo di Okinawa così come è stato tramandato da Higaonna Sensei è nata quella scuola unica e bellissima che è la IOGKF Italia nei cui Dojo continuiamo a sudare e a praticare ogni giorno da trent’anni.
Ecco allora che anche l'opera che raffigura la vita e le opere del Santo acquisisce una sua dignità. Magari non artistica. Messa in relazione con lo sfondo bianco anche quella raffigurazione assume un valore suo proprio, che è proprio l'emergere dallo sfondo, il manifestarsi. Una vita come una foto, immortalata e compresa in un unico segno, un unico gesto.
La nostra vita è un progressivo aumentare del livello di contrasto. Vivendo ci definiamo sempre più marcatamente, creando un unico. L’errore sarebbe considerare la nostra specificità, il nostro essere individui e persone, come se fossimo eroi che si ergono contro il mondo dal quale e nel quale sono nati, mantenendosi in lotta con lo sfondo, acquisendo anzi senso solo dal contrapporsi della determinatezza contro le infinite possibilità. Certo ogni determinatezza è tale proprio in quanto si staglia su uno sfondo, in quanto si definisce attraverso l’identità a se stesso e la differenza dal resto. Ma essere consapevoli ed accettare il legame che esiste fra il segno e l’infinita totalità dei segni possibili, fra la manifestazione effettiva e la possibilità, ci permette invece di cogliere in pieno il senso del nostro danzare, suonare, dipingere, vivere.
Allora abbiamo una grande responsabilità. Partendo dal silenzio siamo noi a scegliere che musica o che rumore fare, quale foto scattare,  come impressionare i negativi, se ballare o eseguire dei gesti scomposti e sgraziati, quali rumori quali vite scellerate e sciatte vivere. La nostra vita è nelle nostre mani, scegliamo il bello o ci lasciamo andare allo spreco e alla sciatteria? Siamo sicuri che questa musica, la musica che ascoltiamo riempiendo il nostro tempo sia bella? Che ogni nostra distratta occupazione sia degna di imbottirci l’esistenza, o che non sia meglio piuttosto che ogni nostra seppur minima occupazione profumi del tutto al quale appartiene?
L’inferno o il paradiso sono questioni di gusto personale. Regolando il contrasto appare una vita, quella che viviamo e che ci meritiamo. 



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