venerdì 29 maggio 2015

Il silenzio che muove




Pubblichiamo delle riflessioni sul dire poetico del poeta Franco Loi (Genova 1930), estratte da un incontro tenuto in un pomeriggio di una domenica d'estate nel lontano 1998 a Fudenji (Monastero Zen Sōtō fondato dal Maestro Fausto Taiten Guareschi sulle colline emiliane). Questo scritto è stato pubblicato in occasione del ventennale di Fudenji (2005) sul notiziario del Monastero. 



La parola nasce chissà da dove. So che esce la mia voce che dice, e attraverso la mia voce io agisco.
Noi vibriamo attraverso il suono quindi modifichiamo noi stessi, modifichiamo il rapporto con l’altro, con la natura, con il mondo, modifichiamo l’universo perché agiamo su di lui.
Proprio come quando ascoltiamo il vento, lo ascoltiamo e basta: è questo ascolto che muove dentro di noi. Il tipo di vento che ci investe produce dentro di noi qualcosa. E così avviene nella poesia. Che cosa avviene? Non lo sappiamo finché non l’ascoltiamo tante volte. E’ proprio come quando ascoltiamo la musica, Bach o un musicista jazz. E soltanto quando ascoltiamo tante volte incominciamo forse a sentire che cosa si è mosso dentro di noi. E poi cominciamo a capire qualcosa di quello che voleva dire il musicista. Ma questo avviene proprio attraverso la frequentazione dell’ascolto.
La parola “sacro” viene da “sac”, distante. Colmare la distanza è fare poesia. Io ho un moto di affetto verso qualcuno, vado verso di lui, faccio da ponte, colmo la distanza attraverso il movimento. La parola “pontefice” nasce da qui, è colui che fa da ponte, in quanto colma la distanza. L’amore è il movimento del sacro, è proprio il movimento che compie, copre la vita. Dante dice nel poema: “Io son colui che quando amor mi spira…” – cioè quando l’amore soffia – “vo’ significando”. E do’ dei significati che sono segni, quindi la parola è segno di qualcosa d’altro. Se dico: “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita”, siete pronti a cogliere i significati apparenti. Ma se vi fate investire dal verso, vi accorgete che non c’è spiegazione. I significati apparenti sono stati interpretati nella storia almeno diecimila volte, a seconda dei casi e delle epoche. “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”, sentiamo un’emozione e non sappiamo perché. Perché queste poche parole ci muovono? E’ un verso enigmatico che ci avvince, è il verso in sé che ci dà l’emozione. Questo è lo straordinario della poesia.. Ma è lo straordinario di ogni nostro rapporto! Perché noi non sappiamo mica, quando ci siamo innamorati, perché è successo. Amiamo e basta! Siamo amici, e non sappiamo perché, siamo amici e basta. Un moto d’amore ci ha in quel momento resi uno e così avviene con la poesia. Il moto , il suono, la voce di qualcuno che ha dato ai suoni quella sequenza, quel ritmo, quella lunghezza di sillabe, per chi è detto poeta è uno che dà voce.
E non dà voce solo a se stesso, dà voce a me che ascolto, e al mondo che viene espresso. Allora questo movimento non ha spiegazioni proprio allo stesso modo in cui non hanno spiegazioni tutte le cose grandi e straordinarie della vita, perché noi, nella vita, entriamo in rapporto.
E sentire il rapporto che noi siamo e che noi sentiamo vivificante, ci rende vivi. I colori diventano più forti, più limpidi, si colmano le distanze, le lingue, e tutte le differenze che nascono dalla pretesa intellettuale dell’uomo di sistemare il mondo.
E allora ecco che la poesia compie un antico rito, quello di fare il sacro.
Si presume, in origine, che il sacerdote e il poeta fossero una sola persona, perché lui parlava in versi, perché è la parola prima, originaria dell’uomo, la poesia. Non si tratta di catalogare le cose, è dare un nome alle cose, e do’ un nome all’essenza della cosa. La differenza tra l’uomo-poeta e l’uomo, è che l’uomo si dimentica, non ascolta, è che l’uomo, anche se non lo sa, vive attraverso una mediazione mentale il rapporto, ma ogni uomo in potenza sarebbe un poeta, perché è capace di amore ed è capace di colmare la distanza dall’altro, dalle cose, dal mondo.
A quanti è capitato di avere improvvisamente un pensiero che ci attraversa e che sentiamo importante? A tutti capita di sentire che è un pensiero diverso, che ci arriva da chissà dove. Poi però questo pensiero non lo scriviamo e lo dimentichiamo subito dopo. Il poeta lo scrive. E lo scrive ogni volta, e scrivendo prepara la strada. Lavorando. Si lavora su di noi, si lavora sullo strumento, che diventa capace di esprimere.
Vicino a Belluno ho conosciuto un fabbro ferraio; mi ha fatto vedere le sue opere. Davanti a una ho detto: “Questa è magnifica!”. Lui mia ha detto: “Certo, questa si è fatta da sola”.
Ed è così che si fa. Nel poeta si fa da sola la poesia. Non è lui. Lui diventa uno strumento del fare, lo diventa naturalmente, lavorando tanto sullo strumento. Si lavora tanto, si ascolta, si tace, si ascolta e si scrive.
Un tempo, invece di scrivere, si diceva e si memorizzava, cioè si coltivava la memoria. Mentre noi adesso la usiamo sempre meno, perché abbiamo anche il registratore, per cui registriamo e non abbiamo neanche più bisogno di scrivere. E meno esercitiamo tutto il nostro corpo nell’azione, più atrofizziamo le nostre possibilità, che sono infinite. Molte delle poesie che ho scritto le ho ascoltate nelle osterie, oppure nei manicomi. Una mia amica mi ha detto: “Gho pagüra. No del dutur, ma de la porta”. Non del dottore, ma della porta aveva paura, perché è la porta, c’è dietro una mano invisibile che sempre la apre. E quando si è negli ospedali, nei manicomi, in prigione, l’aprirsi di una porta è come l’aprirsi di un abisso, non si sa cosa succede. Questo non l’ho mica pensato io, l’ha pensato questa mia amica, io l’ho scritto e dopo l’ho messo in versi. All’osteria una volta ho sentito uno che parlava della morte. “Un dì la mort la me cureva adrè, go dit ‘ciao ti’ e po’ me so nascost, la me cercava e mi: sarìa de dì, bruta putana…”. Come l’ho ascoltata, l’ho scritta. La lingua orale è lingua poetica, perché è fatta di suoni che portano l’infinito dei contenuti. C’è la famosa faccenda del filò delle stalle, quando la gente si riuniva e si raccontava, dei fantasmi, di quel morto che sembrava non fosse più morto, del talaltro che aveva visto qualcosa…
Una grande cultura popolare, ricca, che veniva trasmessa tra gli uomini e che dava il senso, qualcosa di più di quella che era la loro funzione, di contadini, di operai, di artigiani. Mantenere vivo l’esercizio della propria lingua orale è una delle cose importantissime, perché vuol dire mantenere viva la propria possibilità creativa, la capacità di dire, di trasformare se stessi e il mondo. Quindi il dialetto è la lingua più lingua. Men che meno lo è la cosiddetta lingua globale che sta avanzando.
Da quando è venuto fuori il registratore vado in giro con quello, prima registravo col quaderno e quando mi dicevano qualcosa che volevo ricordare lo scrivevo. Uno una volta mi ha detto: “M ste fè?” E io: “Te scrivi!” “E perché?” “perché son cùrt de memoria!” (“Che stai facendo?” “”Scrivo te” “E perché?” “Perché ho la memoria corta!”.). Se io avessi memoria terrei a mente, come faceva nei campi di concentramento in Germania Tonino Guerra. Mi ha raccontato che quando gli veniva da dire una poesia, la sentiva, con la mente la costruiva, poi la diceva a un compagno e gliela faceva imparare a memoria, in modo che se moriva lui la teneva il compagno e così via. Una decina di prigionieri si dicevano le poesie.
In Dante scopriamo che c’è di tutto, proprio tutto quello che c’è in un patrimonio linguistico popolare. Il fondamento, in ogni lingua, come dice Ferdinand De Saussure, è la lingua popolare orale. E’ l’oralità. E’ l’italiano semmai che è una lingua per pochi, inventata nel ‘500 perché i potenti si sono scritti e scambiati le lettere, le informazioni, le notizie attraverso il toscano.
Se io vado in Spagna oppure in Islanda, io leggo le poesie e la gente ascolta, sente i suoni, è abituata a sentirli, allora ascoltano, traduzione o no, e sono commossi. Poi c’è anche la traduzione, ma questo è secondario. In Italia se non c’è la traduzione la gente perde una parola non capisce più, va fuori, perché è abituata già attraverso la lingua, che è una lingua veicolare, ma è quella dell’informazione, non è più lingua della poesia. E questo è grave, gravissimo sul piano della comunicazione, cioè del mettere in comune.
Quindi i dialetti sono un grande patrimonio. Se ne accorgono anche i francesi che stanno rivalutando il bretone, l’ occitano, le loro origini linguistiche perché capiscono che la lingua nazionale non sa fare poesia.
Se io mi metto in ascolto, poeticamente in ascolto, se faccio silenzio con la mente, io posso captare ciò che non vedo e non sento normalmente con le orecchie e non vedo con gli occhi. E’ lo spirito che parla, e io posso sentire dove non si può arrivare con l’ascolto. Ascolto e l’aria è piena di suoni. Quando siamo un po’ eccitati la sera non prendiamo sonno perché la mente va e non possiamo fermarla. Questa eccitazione, questo muoversi incessante bisogna calmarlo, allora cominciamo a fare silenzio e nel silenzio si ascolta. Allora può giungere, nell’ascolto, la voce dello spirito.
La “diritta via” è la più semplice, ed è smarrita perché la mente costruisce un’infinità di fantasmi e un’infinità di sentieri attraverso cui l’uomo non si ritrova più, si perde.
La condizione dell’uomo è la paura, che lo rende schiavo di qualcosa che lo rassicuri, degli schemi che di mano in mano gli vengono presentati; può essere la bandiera rossa, la bandiera nera, la bandiera bianca, una qualsiasi ideologia, persino la famiglia, o l’identificazione con un ruolo, con una funzione; può essere qualsiasi cosa che ponga fuori dall’uomo la sua identità. Allora io non sono più libero, non sono più portato ad essere in ascolto, ma a uniformarmi con quel fuori, qualunque sia. Gli ignavi sono la maggioranza, e Dante li mette fuori dall’inferno perché non hanno neanche il diritto di starci. Ha diritto di stare all’inferno che si assume la responsabilità della violenza, e può anche pagarne il prezzo. Stare in ascolto di sé è esporsi nel mondo per quello che si è. Faremmo di tutto pur di non essere ritenuti ridicoli o imbecilli. E invece noi siamo imbecilli! E mi fa piacere che lo siamo. Venivano chiamati gli stolti di Dio, o pazzi di Dio, i primi cristiani, perché la mente tace e si rende atta ad essere azione di Dio.
Viene detto a Gesù:  ” Sono venuti i discepoli del Battista e domandano chi sei, cosa fai, dove vai”.
E lui gli risponde: ” Dite a chi vi ha mandato…(lui non sa se sono i veri discepoli del Battista, potrebbero essere chissà chi) che avete visto i ciechi che vedono, i sordi che sentono e che il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Questo mi ha sempre affascinato: ” Non ha dove posare il capo”. Cioè non c’è un punto qualsiasi in cui l’uomo possa identificarsi, fosse pure il proprio io. Non c’è un punto di riferimento, non c’è dove posare il capo.
L’uomo deve avere questa esposizione al mondo, ma è questa la cosa di cui l’uomo ha paura, perché è pericolosa. Quando abbiamo dai 14 ai 17 anni, una delle età più terribili che esista nella vita dell’uomo, l’adolescenza, vediamo gli altri e ci pare di essere diversi, però non lo accettiamo, vogliamo essere come loro, e ci identifichiamo con qualcosa fuori, con un amico, una persona, un modo di essere, perché sentiamo un pericolo nella nostra diversità.
Questa è la paura che serpeggia in mezzo agli uomini, la paura che alimenta il conformismo, quella che serve ai poteri. Come dice Gogol: “Non occorre un padrone per ridurci schiavi”.
Allora quando parlo di dialetti e di lingua dico: l’oralità popolare è un patrimonio da salvare. Perché è il patrimonio della gente che nella sua tenebra trova il modo di colmare la distanza anche tra sé e la propria paura.

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