venerdì 29 giugno 2012

Ze(ma)N


Pubblichiamo un nuovo, stimolante contributo di Emilio Chelini, 1° Kyu, praticante al Tora Kan Dōjō.

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Nana Korobi Ya Oki. Incisione su pietra di Sensei Paolo Taigo Spongia
 

C’è un messaggio segreto in questa popolare poesia giapponese, me lo sento. Mi piace troppo, e siccome sono un tipo a cui piace complicarsi la vita, non può piacermi così semplicemente, deve esserci nascosto da qualche parte un tesoro. Il fatto è che le due interpretazioni che mi saltano subito agli occhi non mi convincono. O sono io che non ho messo gli occhiali
Se la vita ti butta giù, ciò che ti viene chiesto è di rimetterti in piedi, una volta di più. E’ questione di volontà? Si tratta  dell’io che vuole, o deve, imporsi sulle forze incontrollabili della natura e del destino? Non saremmo quindi troppo lontani dallo spirito della tragedia classica.
Oppure, come la bambola di Daruma (Bodhidarma) con corpo rotondo e senza gambe, che sempre si riposiziona, dondolando, il segreto, l’insegnamento nascosto, sarebbe proprio il lasciar passare le avversità, le cadute, come il giunco che si piega e subito dopo torna alla propria posizione?
Ma la posizione del giunco non è semplicemente dritta. E’ dritta, piegata e di nuovo dritta. Nei vari istanti assume diverse posizioni.
La mente sa che se cado, mi rialzo, il risultato quindi è un pareggio (1 a 1) e non ci si ritrova nell’asimmetria apparente che si sprigiona dalla poesia.
Infatti i conti non tornano, stiamo 8 a 7 per il rialzo. Allora potremmo pensare che bisogna tenere a mente il fatto che si parte dalla posizione diritta, annullata dalla caduta, se cado vuol dire che passo da una condizione in cui non c’è caduta, alla caduta. Il rialzarsi, le otto volte su, indicherebbero le otto posizioni diritte necessarie per giustificare le sette cadute. Nasco in piedi. Cado mille volte. Mille-e-una-volta sono stato dritto in piedi. Mille sono stato a terra.
Eppure neanche questa interpretazione mi convince. Non stiamo parlando di geometria, né di matematica. L’asimmetria che genera questo detto deve avere implicazioni più profonde.
Si tratta di un finto 8 a 7. Potevamo anche perdere 7 a 8. Partiti da terra, ci siamo rialzati 7 volte e infine siamo ricaduti.
Si potrà dire: a farci cadere ci pensa la natura, il mondo, l’esterno, a noi tocca mettere in moto il dinamismo della rialzata. Quindi sarebbe come uno sprone: Rialzati! Di nuovo la volontà dell’individuo, di nuovo lo sforzo tragico?
Eppure a cadere, 9 volte su dieci, ci pensiamo da soli, proprio a causa della volontà. Lo sforzo che facciamo, spesso, è proprio ciò che determina la caduta. E per rialzarsi (bene) non occorre la volontà, comandare le gambe e le braccia dettando ordini dettagliati al movimento.
Il movimento di caduta, è già nel mio essere su, almeno nell’universo che questa frase dischiude.
C’è una tensione, che ci porta su. La tensione fra il cadere e il rialzarsi, che si vorrebbe risolvere nella vittoria della spinta accrescitiva, consapevoli che dopo l’ennesimo ritorno alla posizione eretta, proprio perché la posizione eretta ha in se il rischio della caduta, anche solo come presenza dell’assenza, ha in se anche il vuoto di se stessa. Siamo su ma potremo di nuovo essere gettati nell’avverso, quindi allo tempo stesso siamo già ora in buona compagnia della caduta.
Credo non si tratti per niente di una frase esortativa,. né tantomeno che ci troviamo di fronte ad un imperativo. Non ci ammonisce, non ci sprona né ci comanda.
La bellezza di questa poesia viene fuori all’indicativo. Descrive un fatto. Non importa il verso dal quale afferri il problema, se dalla caduta o dal rialzarsi. Il fatto è che ad ogni stato (che sia il su o che sia il giù) corrisponde un movimento (su-giù). Si tratta quindi di dinamica, anche se fermiamo il movimento all’attimo. Se guardiamo alla caduta vi troviamo il fatto semplice che vi è implicata la risalita. E se stiamo in piedi, non solo veniamo da una caduta, ma abbiamo la caduta nel nostro stare su belli dritti. E potrà accadere di finire il nostro tempo in piedi, o di nuovo a terra, non importa. Importa la presenza.
Ci sono allenatori, nel calcio, che giocano per la vittoria. 1 a 0. Da una situazione di stasi, creare il movimento minimo necessario a passare al risultato utile per i tre punti, e difendere.
Ma anche nel calcio mi complico la vita. Perché sono romanista e perché sono zemaniano.
Ricordo poche partite, le vedo e le dimentico. Alcune no. Poche.
Ho visto perdere la Roma di Zeman  5 a 4 con l’Inter all’Olimpico. Non ho mai smesso di vedere i ragazzi correre e credere nella vittoria. Non pensavano solo al risultato, a difenderlo, a raggiungerlo. Ma correvano per 90 minuti, implacabili, il tempo di una partita, alla fine hanno dato tutto. E quella partita è custodita nella memoria collettiva più di altri pareggi sbiaditi e vittorie per uno a zero, con difese serrate.
Zeman è l’instabilità del risultato, Zeman rappresenta la passione per 90 minuti. Un colpo una vita. Giochi una vita e pensi a vivere, il risultato è un accidente. Meglio finire in piedi. Ma credo che finire in piedi sia strettamente legato al modo in cui siamo stati in grado di cadere. Non importa quando l’arbitro fischia la fine della partita, e quindi non importa il risultato. Se sia un 8 a 7 o un 7 a 8.
Perché la vita è passione e immediata presenza.
Dopo un passaggio di grado, dopo una sessione di esame dove si è dato con sincerità e generosità tutto quello di cui siamo stati capaci, nel bene e nel male, i dojo kun vengono fuori più liberi, più sonori. E’ bello lasciarsi andare alla passione, conquistarsi con il sudore il piacere del niente.