giovedì 8 agosto 2019

Retto sforzo


Retto sforzo (samyak pradhāna), o retta diligenza, è il genere di energia che ci aiuta a realizzare il Nobile Ottuplice Sentiero. Se ci sforziamo per ottenere beni, cibo o sesso facile, quello sforzo non sarà retto; se lavoriamo ventiquattr'ore al giorno per il profitto o per la fama o per sfuggire alla nostra sofferenza, anche quello non sarà retto sforzo. Da fuori appariremo forse come persone diligenti, ma non si tratterà di retta diligenza. Lo stesso vale per la nostra pratica di meditazione: possiamo apparire diligenti nella pratica, ma se questa ci allontana dalla realtà o da coloro che amiamo il nostro non è retto sforzo. Praticare la meditazione seduta o camminata in modi che provochino sofferenza al corpo o alla mente non è retto sforzo e non si basa sulla retta visione. La nostra pratica dovrebbe essere intelligente, fondata sulla retta comprensione dell'insegnamento: non possiamo dire di praticare il retto sforzo semplicemente perché ce la mettiamo tutta. 
In Cina, durante la dinastia T'ang, c'era un monaco che praticava la meditazione seduta strenuamente, giorno e notte. Era convinto di praticare meglio di chiunque altro, e ne andava molto fiero. Sedeva giorno e notte, stabile come una roccia, ma la sua sofferenza non ne era trasformata. 
Un giorno un Maestro(1) gli chiese: 
"Perché pratichi tanto?", e il monaco gli rispose: "Per diventare un Buddha!". 
Il Maestro prese in mano una mattonella e cominciò a strofinarla; il monaco gli chiese: "Maestro, che fai?", e il Maestro rispose: "Sto facendo uno specchio". Il monaco domandò: "Come puoi di una mattonella fare uno specchio?", e il Maestro replicò: "E tu come puoi diventare un Buddha solo standotene seduto?". 

Le quattro pratiche che di solito si associano al retto sforzo sono: 

1) impedire ai semi non salutari non ancora manifesti, contenuti nella nostra coscienza-deposito, di manifestarsi;

2) aiutare i semi non salutari che si sono già manifestati a tornare nella nostra coscienza-deposito; 
3) trovare modi per innaffiare i semi salutari non ancora manifesti, contenuti nella nostra coscienza-deposito, e chiedere agli amici di fare altrettanto;
4) nutrire i semi salutari già sorti in modo che possano rimanere nella nostra coscienza mentale e rafforzarsi. 
Questo è detto il "Quadruplice retto sforzo".
"Non salutare" significa che non conduce alla liberazione o al Sentiero. 
Nella coscienza-deposito ci sono molti semi sfavorevoli alla nostra trasformazione: se vengono innaffiati si rafforzano sempre di più. Se l'avidità, l'odio, l'ignoranza e le opinioni erronee che nascono in noi vengono abbracciati con retta presenza mentale, prima o poi perdono la loro forza e ritornano nella coscienza-deposito. 
A loro volta, i semi salutari non ancora sorti possono venire innaffiati e aiutati a manifestarsi nella coscienza mentale. 
Dovremmo innaffiare ogni giorno quei semi di felicità, di amore, di lealtà e di riconciliazione: il farlo ci riempie di gioia e questo, a sua volta, incoraggia quei semi a rimanere più a lungo. Mantenere le formazioni mentali salutari nella nostra coscienza mentale è la quarta pratica del retto sforzo. 
Il Quadruplice retto sforzo si nutre di gioia e di interesse: se la pratica non ci dà gioia, vuol dire che non è corretta. 

Il Buddha chiese al monaco Sona: "E' vero che prima di farti monaco eri un musicista?" Sona rispose che era vero. Il Buddha gli domandò: "Che succede se una delle corde del tuo strumento è troppo poco tesa?" 
"Succede che pizzicandola non dà alcun suono", rispose Sona. 
"Che succede se la tendi troppo?"
"Si rompe". 
"Lo stesso vale per la pratica della Via", disse il Buddha. 

"Mantenetevi in buona salute. Siate gioiosi. 
Non forzatevi a fare cose che non potete fare".(2) 
È necessario conoscere i propri limiti fisici e psicologici. Non dovremmo forzarci a pratiche ascetiche né perderci nei piaceri dei sensi: il retto sforzo si trova nella Via di Mezzo, fra gli estremi dell'austerità e dell'indulgenza ai piaceri dei sensi. 
Gli insegnamenti dei Sette Fattori di Risveglio(3) fanno parte della pratica del retto sforzo. La gioia è un fattore di risveglio, e si trova proprio nel cuore del retto sforzo: anche l'agio, un altro fattore di risveglio, è essenziale per il retto sforzo. Di fatto non solo il retto sforzo ma anche la retta presenza mentale e la retta concentrazione hanno bisogno di gioia e agio. 
Retto sforzo non significa forzare se stessi. Se proviamo gioia, agio e interesse, lo sforzo verrà da sé, con naturalezza. Quando sentiamo la campana che ci invita alla meditazione camminata o seduta, avremo l'energia necessaria per parteciparvi solo se troviamo la meditazione interessante e gioiosa; se non ne abbiamo la forza è perché queste pratiche non ci danno gioia né ci trasformano, oppure non ne cogliamo ancora i benefici. 
Quando desideravo prendere i voti, la mia famiglia riteneva che per me la vita del monaco sarebbe stata troppo difficile. Io invece sapevo che quella era l'unica via per la felicità, e insistetti. Una volta divenuto un novizio, mi sono sentito felice e libero come un uccello nel cielo. Quando era tempo di salmodiare i sutra, mi sembrava di essere stato invitato a un concerto; a volte, nelle notti di luna, quando i monaci cantavano i sutra in piedi sulla riva del laghetto, pensavo di essere in paradiso ad ascoltare il canto degli angeli. Quando non potevo partecipare alla funzione del mattino perché avevo un altro compito da svolgere, mi bastava udire le parole dello Śūrangama Sūtra che provenivano dalla sala di meditazione per sentirmi felice. 



Al monastero Tu Hieu praticavano tutti con interesse, gioia, diligenza; non c'era alcun obbligo o sforzo, c'era solo l'affetto e il sostegno del maestro e dei fratelli nella pratica. 
A Plum Village i bambini partecipano alla meditazione seduta e camminata e ai pasti in silenzio. All'inizio lo fanno solo per rimanere con i loro amici che praticano, ma quando hanno gustato la pace e la gioia della meditazione continuano spontaneamente per conto proprio solo perché lo desiderano. A volte gli adulti impiegano quattro o cinque anni di pratica formale per gustare la vera gioia della pratica. 
Il Maestro Guishan ha detto: 
"Il tempo vola come una freccia. 
Se non viviamo profondamente, sprechiamo la nostra vita".(4) 
Chi può dedicare la vita alla pratica, chi ha la fortuna di vivere accanto al maestro e agli amici nella pratica ha una magnifica opportunità che lo può rendere molto felice. 
Se manchiamo di retto sforzo è perché non abbiamo ancora trovato un modo di praticare che sia appropriato per noi, o non abbiamo ancora sentito profondamente il bisogno di praticare. 
Vivere una vita intera in presenza mentale può essere bellissimo. 

Svegliandomi, stamane, sorrido:
Ho davanti ventiquattro ore nuove di zecca.
Faccio voto di vivere pienamente ogni momento e di guardare tutti gli esseri con gli occhi della compassione.

Recitare questa gāthā ci può dare l'energia per vivere bene la giornata. 
Ventiquattro ore sono un tesoro, uno scrigno pieno di gioielli: se le sprechiamo, sprechiamo la nostra vita. Praticare è sorridere appena svegli, riconoscendo quella giornata come un'opportunità di pratica: non sprecarla dipende da noi. Quando guardiamo tutti gli esseri con gli occhi dell'amore e con compassione ci sentiamo benissimo. 
L'energia della presenza mentale rende ancora più prezioso lavare i piatti, spazzare il pavimento o praticare la meditazione seduta o camminata. 



La sofferenza può spingerci alla pratica: quando siamo ansiosi o tristi, constatare che la pratica ci fa stare meglio ci invoglia a continuare. Occorre una certa energia per guardare la sofferenza e vedere a che punto ci abbia portato; questa comprensione risvegliata ci farà capire come mettere fine alla sofferenza e quale sia il sentiero da percorrere per farlo. 
Quando abbracciamo la nostra sofferenza ne comprendiamo le origini e capiamo che essa può finire, perché c'è un sentiero al centro del quale si trova proprio la sofferenza. 
Guardando il compost possiamo vedere i fiori; guardando il mare di fuoco, vediamo un loto. Il sentiero che non fugge la sofferenza ma la abbraccia è quello che ci condurrà alla liberazione. 
Non sempre è necessario trattare direttamente con la nostra sofferenza; a volte possiamo limitarci a lasciarla giacere latente nella coscienza-deposito e possiamo sfruttare l'occasione per metterci in contatto, grazie alla presenza mentale, con gli elementi salutari e curativi in noi e intorno a noi. 
Questi si prenderanno cura della sofferenza, come gli anticorpi si prendono cura degli elementi estranei entrati nel flusso sanguigno. Una volta manifestati i semi non salutari, dobbiamo occuparci di loro; quando invece sono ospiti, è nostro compito aiutarli a dormire in pace e fare in modo che si trasformino radicalmente. 



La retta visione ci fa vedere la strada da percorrere, e il fatto stesso di vederla ci dà fiducia ed energia. Se ci sentiamo meglio dopo aver praticato la meditazione camminata per un'ora, questo ci darà la determinazione a continuare la pratica; quando ci rendiamo conto di quanto la meditazione camminata porti pace anche agli altri, la nostra fiducia nella pratica si accresce. Possiamo scoprire poco a poco, con pazienza, le gioie della vita che abbiamo intorno, che ci daranno più energia, più interesse e più diligenza. 
La pratica del vivere in presenza mentale dovrebbe essere piacevole e piena di gioia. 
Se inspiri ed espiri e provi gioia e pace, quello è retto sforzo. Se ti reprimi, se praticare ti fa soffrire, probabilmente il tuo sforzo non è retto: esamina la tua pratica e vedi che cosa ti dà una gioia e una felicità di qualche consistenza. 
Cerca di passare del tempo con un Sangha, con fratello e sorelle che creano un campo di energia consapevole che possa facilitare la tua pratica. 
Lavora insieme a un maestro e agli amici per trasformare la tua sofferenza in compassione, pace e comprensione, e fallo con agio e gioia: questo è retto sforzo.





Note al Lavoro:
(1) Il Maestro Huairang (667-744)
(2) Vinaya Mahāvagga Khuddaka Nikāya, 5 (v. anche in Thich Nhat Hanh, Vita di Siddharta il Buddha, Roma, Ubaldini, 1992, p.333, N.d.T.)
(3) I Sette Fattori di Risveglio (o “d’Illuminazione”) sono: consapevolezza, investigazione dei fenomeni, diligenza, gioia, agio ed equanimità o “lasciar andare”.
(4) Guishan (771-853) fu uno dei grandi maestri di meditazione della dinastia T’ang. 




Thich Nhat Hanh
Tratto da “Il Cuore dell’Insegnamento del Buddha
Traduzione di D. Petech
Ed. Neri Pozza, 2000.


© Tora Kan Dōjō




mercoledì 24 luglio 2019

L'arte del dono

"Gli uomini dimenticano l’arte del dono. La vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri binari, pensare l’altro come un soggetto: il contrario della smemoratezza. Di tutto ciò quasi nessuno è più capace. Nel migliore dei casi uno regala quel che desidererebbe per sé, ma di qualità leggermente inferiore. La decadenza del dono si esprime nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia cosa regalare, perché, in realtà, non si ha nessuna voglia di farlo. Queste merci sono irrelate come i loro acquirenti: fondi di magazzino e dal primo giorno. Lo stesso vale per la riserva della sostituzione, che praticamente significa: ecco qui il tuo regalo, fanne quello che vuoi; se non ti va, per me è lo stesso; prenditi qualcosa in cambio. Rispetto all’imbarazzo dei soliti regali, questa pura fungibilità è ancora relativamente più umana, in quanto almeno consente all’altro di regalarsi quello che vuole: dove però siamo agli antipodi del dono. Di fronte alla maggior dovizia di beni accessibili anche al povero, la decadenza del dono potrebbe lasciarci indifferenti. Ma anche se, nell’abbondanza, il dono fosse diventato superfluo — e questo non è vero, sul piano privato come sul piano sociale, perché non c’è nessuno oggi, per cui la fantasia non potrebbe scoprire proprio quell’oggetto che è destinato a fare la sua felicità —, continuerebbero a soffrire della mancanza di dono quelli che non donano più. Deperiscono in loro quelle facoltà insostituibili che non possono fiorire nella cella isolata della pura interiorità, ma solo a contatto del calore delle cose. Un gelo afferra tutto ciò che essi fanno, la parola gentile che resta non detta, l’attenzione che non viene praticata. Questo gelo si ripercuote, da ultimo, su coloro da cui emana."
Theodor W. Adorno, “Minima moralia" (1951)

© Tora Kan Dōjō



domenica 21 luglio 2019

La Poesia di Ryokan


Monaco e poeta Zen giapponese vissuto a cavallo dei sec. XVIII-XIX d.C. (morto nel 1831). Discepolo e successore di Dharma del maestro Kokusen, abate del monastero Entsu-Ji di Tamashima, iniziò un lungo peregrinare che lo portò nelle zone più sperdute del Giappone, fino a che decise di ritirarsi sul monte Kugami, per praticarvi un rigido ascetismo. 
Qui scrisse le sue poesie, che sono tra le più belle della letteratura Zen.

(dal Dizionario del Buddhismo, a cura di V. Sirtori, Vallardi 1994)

Statua del Monaco Ryokan situata nel Tempio Entsu-ji

Ryokan nacque nel 1758 nel villaggio portuale di Izumozaki, sulle coste del Mar del Giappone. Fin da bambino Ryokan ricevette dal padre una severa educazione, secondo l'etica confuciana, e degna del figlio di un samurai. 
Il piccolo Ryokan era timido per natura e portato al silenzio. A causa del suo armore nei confronti dello studio, i compagni lo chiamavano "Lampada di mezzogiorno". 
A dodici anni divenne allievo del maestro confuciano Omoru Shiyo, educatore famoso in tutto il paese. L'insegnamento da lui ricevuto lasciò una profonda impronta nel giovane Ryokan e costituì una solida base per la sua formazione umana e letteraria. 
A diciotto anni, il 18 luglio 1775, con una decisione improvvisa e che meravigliò tutti, lasciò la casa paterna per entrare nel tempio Soto Zen Koshoji. 
Lì rimase per quattro anni, come semplice laico, sotto la guida del giovane maestro Genjo Haryo. All'età di ventidue anni incontò il famoso maestro Kokusen Dainin. 
Cielo e Terra
Calligrafia di Ryokan
Trascorse quindi dodici anni come novizio nel monastero di Entsuji al fianco di Kokusen Dainin e ricevette da lui, all'età di trentadue anni il riconoscimento (inka) di successione nel Dharma.
La fine del noviziato significò per Ryokan l'inizio di un lungo periodo di pellegrinaggio e di ricerca interiore, che durò cinque anni. 
Nel 1796 decise di fare ritorno al suo paese natio, ove vi trascorse otto anni prima di andare ad abitare stabilmente nell'eremo di Gogoan. 
Per motivi di salute fu costretto all'età di sessant'anni a trasferirsi presso il santuario scintoista di Otogo. Nel 1826, all'età di sessantanove anni, si trasferì nel villaggio Shimazaki per trascorrere gli ultimi quattro anni della sua vita in mezzo alla sua gente.





"Molti uomini diventano prima monaci e poi praticano lo Zen. Ma io ho

praticato lo Zen per molto tempo, prima di diventare monaco. "




"Voglio camminare

nella retta Via,
per mille anni,
come se fossero
un solo giorno."



"Ricordo gli anni passati a Entsuji,

la lunga sofferenza nella solitudine.
Al suo ricordo, verso lacrime digratitudine,
tante da confluire nelle acque del ruscello."



Verso lacrime,

pensando al modo
di alleviare
le sofferenze
degli uomini.



"Come ricordo

voglio lasciare
i fiori della primavera,
il canto del cuculo d'estate
i colori dell'autunno."



"Dal giorno della mia venuta in questo luogo

sono trascorsi molti anni.
Quando sono stanco, mi riposo;
quando sto bene, metto i sandali e cammino.
Non mi curo delle lodi degli altri,
non mi lamento del loro disprezzo.
Con questo corpo, ricevuto dai genitori,
mi abbandono al mio destino, gioiosamente."



"Come un fiore 

colto al mattino 
è il monaco Ryokan;
ma il suo ricordo
resterà per sempre."



Tutti i giorni, senza eccezione,

vado a giocare coi bambini.
Porto due o tre palle nelle mie tasche;
sono un uomo inutile, ma felice,
in questa pace primaverile.



La verità non la trovi leggendo

molti libri,
ma in una sola parola.
Se mi chiedi cosa è questa parola:
conoscere realmente il tuo cuore.









Biografia e Poesie tratte da "Poesie di Ryokan" Edizioni La Vita Felice ed. 1995


Anno III N°6 Dicembre/Febbraio 1997



© Tora Kan Dōjō



mercoledì 17 luglio 2019

Nella foglia si manifesta il Tutto




“Generalmente si pensa che una foglia sia nata a primavera, ma Gautama vide che esisteva già da tanto, tanto tempo nella luce del sole, nelle nuvole, nell’albero, in se stesso. Comprendendo che quella foglia non era mai nata, comprese che anche lui non era mai nato.
Entrambi, la foglia e lui stesso, si erano semplicemente manifestati. Poiché non erano mai nati, non potevano morire. Questa visione profonda dissolse le idee di nascita e morte, di comparsa e scomparsa; e il vero volto della foglia assieme al suo stesso volto, divennero manifesti. Vide che è l’esistenza di ciascun fenomeno a rendere possibile l’esistenza di tutti gli altri fenomeni. L’uno contiene il tutto, e il tutto è contenuto nell’uno. La foglia e il suo corpo erano una cosa sola. Nessuno dei due possedeva un sé permanente e separato, nessuno dei due poteva esistere indipendentemente dal resto dell’universo…”

Thich Nhat Hanh

© Tora Kan Dōjō


domenica 7 luglio 2019

Le mani di Higaonna Sensei, il Karate incarnato .


Prendiamo spunto da una discussione avvenuta su di un social network in cui qualcuno, di fronte alla foto delle mani di Morio Higaonna Sensei, aveva obiettato che ‘si era rovinato le mani’.
Questa è stata la risposta (estrapolata dalla breve discussione) di Sensei Taigō e a seguire riportiamo anche un articolo a firma Mike Clarke Sensei sullo stesso tema di cui, e ci scusiamo, non siamo riusciti a trovare la fonte da cui è stato estratto.
Ci è sembrata un'interessante discussione sulla Pratica in generale e ve la proponiamo come spunto di riflessione.



Higaonna Sensei ha 80 anni e Pratica quotidianamente da più di 65 anni.
Questa è la sua vita e questi sono i segni della sua grandiosa Pratica quotidiana, intensa come pochi hanno saputo esprimere, come per tuo nonno i suoi calli erano il segno della sua fatica.
Quando giocavo a tennis da ragazzino a livello agonistico e giocavo molte ore tutti i giorni avevo il palmo della mano destra piena di calli causati dall’impugnatura della racchetta… e ho giocato a tennis solo per una decina d’anni, puoi immaginare la pratica quotidiana del Makiwara per 65 anni?

A volte la Pratica intensa lascia segni ( basta guardare i piedi di una ballerina) ma sono un ben piccolo costo da pagare per il prezioso tesoro ottenuto con la Pratica.

Ti assicuro che al di là del fattore estetico le mani di Higaonna Sensei, anche oggi ad 80 anni, sono sensibili e sanissime basta vederlo tenere il pennello in mano mentre traccia con eleganza e grazia caratteri sulla carta di riso.
Stiamo parlando inoltre di un uomo che ha saputo praticare con una dedizione ed una intensità a volte considerate sovrumane.

Comunque, se può rassicurarti, nessuno di noi, anche volendo, avrà mai le mani di Higaonna Sensei perché la sua Pratica è inarrivabile.

Taigō Sensei

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Sfide personali qual è la tua ?

Non ho dubbi che alcuni di voi guardando a questa foto disapproveranno questo livello di condizionamento e passeranno oltre rassicurati dalla loro supponenza e dalla convinzione che non sia più necessario condizionare e mani in tal modo perché non ci sono più samurai da combattere a mani nude…. Inoltre, fa male!
Ok sono d’accordo sul fatto che Higaonna Sensei sia andato ben oltre il punto dove la maggior parte degli altri si fermano nel forgiare le proprie mani in straordinarie armi, ma non credo che la sua finalità fosse stata mai quella di trasformare le sue mani in martelli di carne.
Dalla conversazione che ho avuto con Lui in quella particolare visita al suo Dōjō nel 2008, ne sono uscito, più di ogni altra cosa, con la consapevolezza della sfida alla quale ha sottoposto sé stesso quotidianamente da quando lo conosco… trent’anni.
Come tutti gli autentici Karateka, Morio Higaonna non si allena per combattere e vincere qualcun altro, si allena per combattere gli aspetti negativi, le debolezze, del suo stesso carattere e per non perdere. E poiché il suo avversario è lui stesso si tratta di un combattimento quotidiano, ed il giorno successivo la sfida non è meno dura del giorno precedente.
Che tu sia d’accordo o meno con il condizionare le tue mani ed il tuo corpo allo stesso grado di Higaonna Sensei, faresti bene a domandarti questo: “ Io affronto le mie personali sfide nel Karate con la stessa determinazione e dedizione con cui Morio Higaonna Sensei affronta le sue?” Potresti realizzare che non ti sei mai posto una personale sfida nella tua pratica del Karate (voler arrivare alla prossima promozione di grado non conta), allora forse è tempo che tu inizi. E quando lo farai, e quando quella sfida comincerà a fiaccare la tua resistenza e  determinazione ad affrontarla, allora, forse, guarderai nuovamente le mani di Higaonna Sensei e le vedrai in una nuova luce.

Mike Clarke Sensei

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English Version



We take a cue from a discussion on a social network in which someone, in front of the photo of the hands of Morio Higaonna Sensei, had objected that "he had ruined his hands". This was the answer (extrapolated from the brief discussion) of Sensei Taigō and then we also report an article signed by Mike Clarke Sensei on the same theme and we apologize, we could not find the source from which the article was extracted.





Higaonna Sensei is 80 years old and He practices Okinawan Goju-Ryu daily for more then 65 years.
This is His life and these are the signs of His Practice amazing daily Practice, intense as few people has been able to express as for your grandfather the calluses on his hands were the signs of his hard job in the fields.
When I played tennis as a child at a competitive level and played many hours every day I had the palm of my right hand full of calluses caused by the grip of the racket ... and I played tennis just for ten years, you can imagine the daily practice of Makiwara for 65 years?

Intense practice leaves marks (just look at the feet of a dancer) but they are a very small cost to pay for the great treasure obtained with the Practice.

I assure you that beyond the aesthetic factor the hands of Higaonna Sensei, even today at 80, are sensitive and healthy enough to see him hold the brush in his hand while tracing with grace characters on the rice paper.
We are also talking about a man who knew how to practice with a dedication and intensity sometimes considered superhuman.

However, I assure you,  none of us, even if we wanted to, will ever have the hands of Higaonna Sensei because his practice is unattainable.

Taigō Sensei


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Personal Challenges which is your? 

 By Mike Clarke

 I have no doubt that some of you looking at this photo will dismiss this level of conditioning, and move on, safe in your own smugness that it's no longer necessary to condition your hands in this way, because you don't have to fight armed samurai anymore...and besides, it would hurt! Ok, I agree, Higaonna sensei does appear to have gone past the point where most others stop when it comes to forging the hands into formidable weapons, but I'm not sure turning his hands into flesh and blood sledgehammers was ever the point. From my conversation with him on that particular visit to his dojo in 2008, I came away, more than anything, with a sense of the challenge he has been setting him self on an almost daily basis for as long as I've known him....thirty years. Like all authentic karateka, Morio Higaonna is not training so he can fight someone else and win, he's training so he can fight the negative aspects of his own character and not loose. As his character is a part of who he is the fight is a daily one, and is therefore no less challenging than it was the day before. Whether you agree with conditioning your hands and body to the same degree Higaonna sensei has or not, you might do well to ask yourself this: "Do I face my personal challenges in karate with as much conviction as Morio Higaonna faces his?" If you have suddenly realized you've never identified a personal challenge in your karate (wanting your next promotion doesn't count), then maybe it's time you did; and when you do, and when that challenge begins to break your will to continue, then perhaps you'll look at Higaonna sensei's hands again, and see them in a new light.

© Tora Kan Dōjō





mercoledì 3 luglio 2019

Fare l'uomo


Non vivere su questa terra come un inquilino 
o un villeggiante della natura, 
vivi come se fosse la casa di tuo padre...” 

Nazin Hikmet 
Poeta Turco 
Lettera al figlio dal carcere



Le violente mareggiate di questi giorni hanno fatto crollare in vari punti il camminamento che, rasentando il mare, porta da S.Nicola al castello Odescalchi, che amo percorrere con la mia famiglia. A nulla son serviti i frangiflutti posti a protezione dell’esigua lingua di sabbia e l’apparentemente solida struttura murale. 
Sono bastati pochi giorni di mare grosso per erodere alla base la struttura e farla rovinare in mare. 

Giorni fa vedevo un documentario in televisione, uno di questi documentari americani, del National Geographic se non ricordo male, un puma ‘assassino’ attacca una sprovveduta ciclista in mountain bike, ricostruzione doviziosa dell’aggressione con particolare enfasi sulla ‘ferocia’ dell’animale. 
Il puma difendeva il suo pasto, come è abituato a fare, e tutte le altre specie viventi in quel parco naturale ben sapevano che era bene tenersi alla larga, tranne la signorina e la sua amica, probabilmente convinte naturaliste, loro no, loro pensavano di poter percorrere il territorio con la loro mountain bike senza tener minimamente conto degli esseri che in quel luogo hanno la loro dimora…. 
Il puma non ha fatto altro che fare il puma... 

Quando non esisteva ancora il turismo di massa ad affollare le spiagge dell’Indonesia e della Thailandia, i nativi si tenevano distanti dal mare, costruivano le loro umili case, a debita distanza ben dietro le foreste di mangrovie che si distendevano sulla costa fornendo una straordinaria barriera protettiva alle intemperanze del mare… l’arrivo dei turisti ha sostituito le foreste di mangrovie con lussuosi hotel costruiti sulla riva del mare così la grande onda, lo Tsunami, non ha trovato alcuna resistenza al suo avanzare. 
Sui giornali si è parlato di onda assassina… ma il mare ha fatto il mare…

Che dire poi della case costruite senza alcun rispetto di piani regolatori alle falde dei nostri vulcani ? 
Oppure dei disboscamenti, delle dighe, delle cementificazioni dei fiumi… 
E ancora una volta se il vulcano farà il vulcano o se la terra smotterà senza essere trattenuta dalle radici degli alberi abbattuti, sulle case costruite senza criterio né rispetto, come è ovvio che accada alla prima forte pioggia, allora sarà una montagna assassina e non l’uomo un idiota. 

Che dire dell’avida ignoranza che non permette all’uomo di vivere usando, con equilibrio e compassione, le risorse che la natura gli mette a disposizione?
Non parlo dei governi, parlo di noi stessi, di come conduciamo la nostra vita quotidiana, di come facciamo uso dell’acqua, del cibo, del nostro stesso corpo e mente. Ogni nostro gesto ha conseguenze planetarie, eppure, nonostante la straripante informazione, nonostante il cosiddetto progresso scientifico, siamo ancora convinti che possiamo avere degli interessi ‘privati’ che non coinvolgano istantaneamente e spesso, drammaticamente, ogni esistenza.

Sawaki Roshi (grande Maestro Zen del XX sec.) era solito affermare che la coscienza umana non si è evoluta di pari passo col cosiddetto progresso tecnologico e la considerava oggi ad uno dei livelli più bassi di consapevolezza. 
Usava dire: ‘Che strana creatura l’essere umano, brancola nel buio con occhi intelligenti’.

Quand’è che l’uomo imparerà a fare l’uomo, a riconoscersi parte di un tutto inseparabile? 
La nostra pratica è una preziosa occasione per ‘rieducarci’ alla nostra umanità, al rispetto per la natura di cui il nostro corpo e la nostra mente sono espressione e a condurre la nostra vita con sobrietà e rispetto.
Vi saluto offrendo alla vostra lettura la poesia di Eduardo De Filippo: ‘O Mare’.

Taigō Sensei


‘O Mare 

'O mare fa paura 
Accussì dice 'a ggente 
guardanno 'o mare calmo, 
calmo cumme na tavula. 
E dice 'o stesso pure 
dint' 'e gghiurnate 'e vierno 
quanno 'o mare s'aiza, 
e l'onne saglieno 
primm' a palazz' 'e casa 
e pò a muntagne. 
Vergine santa... 
scanza 'e figlie 'e mamma! 

Certo, 
pè chi se trova 
cu nu mare ntempesta e perde 'a vita, 
fa pena. 
e ssongo 'o primmo a penzà ncapo a me: 
"Che brutta morte ha fatto stu pover'ommo, 
e che mumento triste c'ha passato". 
Ma nun è muorto acciso. 
È muorto a mmare. 'O mare nuna cide. 
'O mare è mmare, 
e nun 'o sape ca te fa paura. 

Io quanno 'o sento... 
specialmente 'e notte 
quanno vatte 'a scugliera e caccia 'e mmane... 
migliara 'e mane e braccia e ggamme e spalle... 
arraggiuso cumm'è nun se ne mporta 
ca c' 'e straccia 'a scugliera e vveco ca s' 'e ttira e se schiaffea e caparbio, 
mperruso, cucciuto, 'e caccia n'ata vota 
e s'aiuta c' 'a capa 'e spalle 'e bracce ch' 'e piede e cu 'e ddenoccie 
e ride e chiagne pecché vulesse 'o spazio pè sfucà... 
Io quanno 'o sento, specialmente 'e notte, 
cumme stevo dicenno, nun è ca dico: 
"'O mare fa paura", 
ma dico: "'O mare sta facenno 'o mare".

Eduardo de Filippo, 1968























[
accussì: così; gghiurnate: giornate; vierno: inverno; onne: onde; a palazz' 'e casa: alte come palazzi; scanza: risparmia; vatte: batte; arraggiuso: rabbioso; s' 'e ttira: le ritira; se schiaffea: si schiaffeggia; mperruso: puntiglioso; ddenocchie: ginocchia; sfucà: sfogarsi ]




© Tora Kan Dōjō