Pubblichiamo un
estratto da una lezione tenuta da Sensei Taigō presso il Tora Kan Dōjō durante
la Pratica Zen.
Le lezioni hanno un carattere colloquiale del quale tener conto durante la lettura.
Le lezioni hanno un carattere colloquiale del quale tener conto durante la lettura.
Ultimamente, tra le varie tendenze che ci sono nel
diffondere lo Zen in Occidente, c’è quella di epurare la Pratica da ogni
aspetto rituale.
Cerchiamo sempre di adattare la realtà alla nostra comprensione, alle nostre
abitudini, alle nostre idiosincrasie, ai nostri condizionamenti, ai nostri
pregiudizi, per renderci la vita facile. Ma la Pratica non ha niente a che
vedere con il rendersi la vita facile, nemmeno renderla più difficile
ovviamente, ma la Pratica, specie agli inizi, scuote le nostre abitudini costringendoci
ad abbandonare la nostra ‘comfort zone’.
Una delle esperienze più significative della Pratica
è proprio l’esperienza del rito che ha un impatto molto forte sul praticante.
Il significato e valore del rito sono spesso completamente
fraintesi e l’insegnante in cerca di consenso (pericolosa attitudine per chi si
pone nel ruolo di insegnante), invece di fare lo sforzo di far comprendere e
vivere ai propri allievi il senso e l’efficacia profondi del rito,
preferisce aggirare ogni difficoltà eliminando l’aspetto rituale e in tal modo ‘anestetizzando’
la Pratica.
Non a caso uso il termine ‘anestetizzare’.
Il rito è una performance estetica che coinvolge tutti i sensi e in una società
sempre più anestetizzata il rito non trova più spazio.
“Rito” dal sanscrito rtàm può essere reso con ‘Ordine’, è ordine nell’azione ed
è nell’azione che da sempre i cuori degli uomini si incontrano.
Non nelle
filosofie, non nelle teorie e libri sacri, è nell’azione che i cuori si
incontrano.
Ecco perché la vera Pratica è innanzitutto azione e non
speculazione.
E’ oggi molto più probabile che si ritrovi lo spirito religioso lavorando insieme in un campo piuttosto che riunendosi passivamente in una chiesa. Quando si lavora insieme e ci si confronta con le leggi della natura, con gli elementi del tempo e dello spazio, con i suoi ritmi, e ci si confronta con la vita e con la morte, si vive profondamente, inconsciamente, il senso profondo del gesto rituale e dello spirito religioso.
Coltivare la terra è un rito molto profondo. Se osservate
la vita di un contadino non è altro che la ripetizione di gesti rituali dall’alba
al tramonto, gesti che hanno un ordine legato a leggi universali.
Il rito non trova più spazio in una civiltà
anestetizzata che interpreta il lavoro e l’azione come delle noie necessarie al
raggiungimento dello stipendio a fine mese da spendere per lo più in direzioni
insensate.
Il rito invece è proprio unire i cuori nell’azione: corpo-mente
unificati.
Un’azione che trascende le limitate e spesso illusorie necessità umane.
Niente a che
vedere con l’andare in chiesa la domenica da spettatori annoiati.
Senza una vera e sincera partecipazione non esiste alcun rito e si contamina il
proprio cuore anziché purificarlo.
Se partecipate con
sincerità, con il corpo-mente unificati, ai semplici riti del Dōjō,
constaterete che il corpo è chiamato a muoversi all’unisono con quello degli
altri.
Si è costretti ad uscire dal proprio isolamento, dalla distrazione.
Al suono della campana risponde istantaneamente
il nostro inchino tanto che diventa difficile riconoscere se sia l’inchino a seguire
il suono della campana o se la campana sia chiamata al suono dalla vibrazione
dell’inchino.
Offriamo un incenso, la nostra mano lo posa ben diritto nell’incensiere preparato
con cura, il Dōan suona la campana, l’Assemblea s’inchina e l’alchimia si
compie, il mio gesto si connette indissolubilmente al gesto degli altri,
impossibile separarli.
In questa comunione di gesti, c’è un’ assoluta comunione di cuori che permette
di accedere a profondi significati, ai quali da soli sarebbe difficile, quando
non impossibile, accedere.
Si è uniti e aperti di fronte al mistero.
Quello che celebriamo è un mistero al quale ci affidiamo completamente.
Allora il sacro si manifesta sul nostro fiducioso cammino.
Qualcuno ieri mi scriveva preoccupato perché ha
saputo che in questi giorni un tifone si sta abbattendo proprio sulla rotta che
percorrerò dopodomani per andare ad Okinawa, mi esortava a non partire. Ma io
mi reco ad Okinawa in risposta ad un invito del mio
Maestro
e accettato l’invito del proprio Maestro
non possiamo più tirarci indietro, qualunque cosa accada. E’ davvero questione
di vita o di morte.
Quando viaggio in aereo sono costretto ad affidarmi
e non ho alcuna possibilità di controllare e di gestire quello che accadrà se
non in misura irrilevante. Il risultato che questo provoca in me è un profondo
rilassamento.
Questo rilassamento che viene dall’affidarci è quello che dovremmo riprodurre
anche nella nostra vita quotidiana, imparare ad affidarci completamente perché
c’è una forza più grande di noi che ci sostiene e ci tiene in vita, ci sostiene
a prescindere dalla nostra volontà o capacità, intelligenza e stupidità e via
dicendo …
Ed è questo affidarsi che noi viviamo attraverso il rito.
Impariamo ad affidarci, a lasciarci guidare, ad abbandonarci all’ordine dell’azione
comune che nel Dōjō può essere l’inchino di cinque persone ma che diventa
un’azione che coinvolge l’universo intero.
Non c’è nessun’azione che sia isolata, ogni nostro
gesto, ogni nostro pensiero, ogni nostra decisione coinvolge ogni cosa e
produce effetti che vanno ben oltre la nostra capacità di comprensione e
previsione.
Affidarsi alla vita è la cosa più importante da
imparare, ed è quello che innanzitutto ci insegna lo Zazen.
Siamo pieni di paure perché non sappiamo affidarci.
Una fede profonda scaturisce spontaneamente sedendo
in Zazen, celebrando quello che il Maestro Deshimaru definiva ‘il più alto dei riti’.
Vi esorto a praticare con un cuore sincero e ad
affidarvi fiduciosamente alla Grande Via.
Gasshō
© Tora Kan Dōjō